promesse vuote
Le serrande abbassate dell'Iran sono la risposta ai trucchi del regime
“Unità, protesta, sciopero... rivoluzione”: l’appello a non fermarsi e a non credere che ci siano concessioni dagli ayatollah. "Quando le dittature capiscono che sono nei guai iniziano a promettere che cambieranno la loro natura", dice l'analista Karim Sadjadpour
“Quali sono i tuoi piani per i prossimi tre giorni? Unità, protesta, sciopero… Rivoluzione”. È l’appello alla mobilitazione e alla rivolta che da giorni spunta sui muri, sulle panchine, sui finestrini degli autobus, i manifestanti lo hanno fatto pendere giù dai cavalcavia e dai rami degli alberi, lo hanno attaccato ai pali della luce e sul fianco dei palazzi. L’Iran è nostro, sembrano gridare al regime e al mondo intero questi cartelli, non abbiamo paura, la protesta non si placa. E nonostante le minacce delle forze di sicurezza, nonostante il freddo pungente e le notizie di nuove arresti e di nuove condanne a morte, nei due giorni di sciopero a Teheran, a Saqqez (la città natale di Mahsa Amini), a Isfahan, a Bushehr, a Shiraz, a Tabriz, a Behbahan, a Kermanshah, a Zarghan, a Rasht, a Dezful, a Karaj, a Bojnourd, ad Arak, a Shahin Shahir, a Gohardasht, a Bukan, a Kamyaran, a Marivan e a Sanandaj, i negozianti hanno chiuso le serrande.
Le immagini delle strade vuote, del brulicante gran bazaar di Isfahan deserto erano impressionanti. “Chi continua a derubricare questa rivoluzione come una faccenda di giovani e di ragazze, dia un’occhiata a questi video”, ha detto la scrittrice Roya Hakakian, perché intanto i lavoratori dell’industria automobilistica Morattab incrociavano le braccia, così come i camionisti, i tessitori di tappeti di Tabriz e gli operai dell’acciaieria Zobe Ahan. Nel frattempo signori di mezza età sfilavano davanti agli esercizi chiusi divaricando le dita in segno di vittoria e signore distinte, velate e non scandivano in coro: “Non vogliano un regime che ammazza i bambini” dentro alla metropolitana di Teheran. E poi sì c’erano anche i ragazzi, liceali che dentro cortili spruzzati di neve si tenevano per mano cantando Baraye la canzone- simbolo di Shervin Hajipour, e universitari che sfidavano la ferocia dei bassiji gridando: “Noi siamo l’armata del popolo ci siamo riuniti per combattere la Guida Suprema”.
Nelle stesse ore, ieri Ali Khamenei ha incontrato alcuni esponenti del Supremo consiglio per la rivoluzione culturale, uno degli organi deputati a pronunciarsi riguardo all’obbligo dell’hijab e alla sua regolamentazione. Nelle foto pubblicate sul suo sito, Khamenei è ritratto vicino ad Ali Larijani che, nelle settimane scorse, riguardo al velo ha espresso posizioni dialoganti. La scelta appare tutt’altro che casuale dopo giorni in cui la questione dell’abolizione o meno della polizia morale ha tenuto banco sulla stampa internazionale. Fumo negli occhi, hanno ripetuto all’unisono gli attivisti iraniani, impermeabili ai diversivi e alle manipolazioni della propaganda. Perché intanto la repressione picchiava duro, l’Amaken, la divisione della polizia incaricata di vigilare sugli esercizi aperti al pubblico, intimidiva i negozianti, sigillando le attività con le serrande abbassate. L’agenzia Tasnim ha annunciato la chiusura di un parco di divertimenti di Teheran perché un’impiegata non indossava correttamente l’hijab e il deputato Hossein Jalali suggeriva il blocco dei conti correnti delle mal velate come misura alternativa all’utilizzo della polizia morale.
La sensazione in Iran e che l’atmosfera si stia facendo più cupa. Sui canali Telegram dei pasdaran vengono pubblicati nomi e indirizzi dei manifestanti, lo stesso accade su altri canali con le generalità degli appartenenti alle milizie. Nel frattempo, tra gli attivisti e gli osservatori iraniani monta un cocente senso di frustrazione, la certezza che chi commenta l’Iran dall’estero sia sempre in ritardo di settimane rispetto a ciò che accade nelle strade, una frustrazione esacerbata dalla facilità con cui la stampa internazionale rilancia i ballon d’essai della propaganda di regime. L’idea che dopo tre mesi di spari negli occhi, di sedicenni buttate giù dai palazzi, tre mesi di agguati, di arresti selvaggi, di corpi sequestrati e violati ci si possa rallegrare per una concessione cosmetica che di fatto a oggi neppure esiste è disarmante.
“Mi sarei aspettata che i media internazionali mi invitassero a parlare delle condanne a morte dei manifestanti – ha detto l’antropologa dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi Chowra Makaremi – immaginavo che mi avrebbero chiesto della situazione allarmante di una delle figure principali di questa rivolta, il rapper Toomaj Salehi detenuto da più di un mese (ieri il regime ha diffuso il video di una sua confessione forzata, ndr), mi aspettavo che qualcuno mi sollecitasse a parlare del fatto che la Repubblica islamica si rifiuta di consentire l’accesso alla missione d’inchiesta del Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu, o che mi domandassero del rapporto segreto dei pasdaran diffuso dal gruppo di hacker Black Reward (…), pensavo che sarebbero stati interessati allo sciopero indetto in questi giorni”. E invece no, la notizia che più accende l’attenzione dei media stranieri è la vecchia storia delle colombe di regime che prima o poi prenderanno il sopravvento, cosicché si possa tornare al tavolo negoziale con buona pace dei manifestanti iraniani e dei loro sogni inusitati.
Ma se i diversivi del regime confondono le idee degli analisti che non riescono a immaginare un Iran diverso, un Iran migliore e seguitano a preconizzare l’inevitabile disfatta, i manifestanti interpretano le ambiguità del regime come un sintomo di debolezza.
Oggi in occasione della giornata dello studente, la vicepresidente Ensieh Khazali avrebbe dovuto tenere un discorso all’Università Amirkabir, ma è stata costretta a cancellare la sua presenza perché la sua sicurezza non poteva essere garantita.
“Quando le dittature capiscono che sono nei guai iniziano a promettere ai loro cittadini che cambieranno la loro natura – ha sottolineato l’analista del Carnagie Endowment Karim Sadjadpour – Però queste promesse vuote, più che indebolire, tendono a rafforzare le istanze popolari. Sembra che il regime iraniano sia entrato in questa fase del suo ciclo vitale”.