In Iran non ci sono più zone franche per i leader della Repubblica islamica
Durante il suo intervento all'università di Teheran, Raisi è stato contestato dagli studenti al grido di “Bisharaf!”, ossia senza onore. Mentre nei cortei si scandisce: "Khamenei dittatore!”. La giornata che doveva riaffermare la capacità di reazione della Repubblica ha rivelato un'altra volta la sua debolezza. Intanto prosegue lo sciopero dei commercianti
Fiancheggiato dalle sue guardie del corpo e da un imponente schieramento di bassiji, ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi si è presentato e ha tenuto un discorso in occasione della “Giornata dello studente”. “Non c’è nessun problema a protestare, ma la protesta è diversa dalla rivolta”, ha detto. Raisi è annoverato come un oratore soporifero, ma dopo giorni di indiscrezioni riguardo all’insoddisfazione crescente dell’ayatollah Khamenei nei confronti della sua passività (“è un’anatra zoppa” si commenta da alcune settimane negli ambienti ultra conservatori) il presidente ha sfoderato un tono insolitamente animato e confidenziale.
Si rivolgeva a un pubblico selezionato di insider e studenti di comprovata ortodossia rivoluzionaria, ma nonostante lo sforzo, quando la telecamera ha stretto sui volti della platea, persino gli sguardi amici parevano perplessi. Perché mentre Raisi discettava “del valore della protesta che porta alla riforma” e “della rivolta che invece conduce solo alla disperazione”, fuori dall’università gli studenti battevano ritmicamente i piedi per terra gridando: “Bisharaf!”, ossia senza onore, senza vergogna, alcuni incurvavano le spalle, altri allungavano le braccia per proteggersi dai colpi dei miliziani. “Non c’è nessun problema nel protestare” s’accalorava intanto Raisi mentre i ragazzi con i volti insanguinati correvano in tutte le direzioni, “sono qui per favorire il dialogo non per chiuderlo”, “sono gli studenti (quelli rivoltosi s’intende, ndr) i dittatori”.
Ma per il terzo giorno consecutivo, nonostante le denunce e le intimidazioni, i commercianti hanno abbassato le serrande da Teheran a Sanandaj, da Tabriz a Shiraz, deserti i bazar, i centri commerciali, i caffè ed i ristoranti. “E’ davvero significativa questa manifestazione di unità – ha raccontato al Foglio un negoziante – si tratta di dimostrare con i fatti e non con le parole da che parte stiamo”. E se la protesta s’allarga, se incrociano le braccia pure gli operai, i camionisti, i medici, gli infermieri, gli insegnanti, i professori universitari, se scrivono petizioni i registi, se sono disposti a farsi arrestare gli attori e gli sportivi, persino nell’universo distopico di Raisi, quello in cui i cattivi sono i ragazzi inermi e i buoni quelli che sparano agli occhi, diventa di giorno in giorno più difficile liquidare i manifestanti come terroristi o pedine dell’imperialismo occidentale, e così, ieri, quando il presidente ha cominciato a tuonare contro gli americani che vogliono trasformare l’Iran nella Siria o nell’Afghanistan, i bassiji chiamati ad applaudirlo, si sono ritrovati a chinare gli occhi verso il pavimento.
Ma per Raisi la giornata che doveva riaffermare la capacità di reazione della Repubblica islamica (e la sua in particolare) ha seguitato a peggiorare. Appena è terminato il suo discorso gli studenti hanno dato il via ad un contro-programma fatto di canzoni antiregime, da tutto il paese, a dispetto della stretta della censura, sono iniziati ad arrivare i video delle proteste in corso negli atenei. “Non abbiamo paura, siamo tutti insieme”, “gli studenti sono svegli e odiano la tirannia” scandivano i ragazzi filmati davanti alle forze di sicurezza.
A Teheran, quando è scesa l’oscurità, il traffico ha paralizzato viale Enghelab e gli automobilisti hanno iniziato a premere sui clacson per incoraggiare una folla ordinata che cresceva come un’onda inesorabile avanzando verso piazza Azadi. “Zan, zendegi, azadi”, donna, vita, libertà, ripeteva questa marea di persone. “E’ incredibile, è come se ci fosse tutta la città” dicevano le voci commosse che raccontavano il coraggio e l’orgoglio di Teheran.
Non che per Khamenei questi siano giorni più felici. Ogni notte qualcuno brucia la sua effigie, ogni giorno nei cortei i figli e i nipoti della rivoluzione urlano: “Khamenei dittatore!”. E poi c’è l’imbarazzo di una famiglia sempre più imperfetta. “Mio fratello non sente la voce del popolo iraniano”, ha scritto sua sorella Badri in una lettera che ha destato sensazione. “Mi auguro di poter assistere alla vittoria degli iraniani, di poter vedere il giorno in cui questa tirannia sarà rovesciata”. Madre e moglie di due dissidenti – il marito Ali Tehrani, esponente del clero, recentemente scomparso (nei primi anni ottanta si oppose alla nomina del cognato a leader della preghiera del venerdì) e la figlia Farideh, ammiratrice dell’imperatrice Farah Pahlavi, approdata in carcere il mese scorso dopo aver definito assassino e criminale il regime dello zio Ali – Badri ha tagliato i ponti con il fratello da decenni.
Negli anni Ottanta, per raggiungere il marito, è fuggita in Iraq insieme ai cinque figli. “Abbiamo lasciato l’Iran illegalmente. Non abbiamo nemmeno il passaporto, mio fratello ci ha rifiutato ogni aiuto”, ha raccontato la donna nel corso di una conferenza stampa di cui dà conto il Los Angeles Times. Badri è poi rientrata in patria, non si hanno notizie di contatti con Khamenei né dei suoi rapporti con il resto del clan, quel che è certo è che fino a ieri aveva sempre mantenuto un basso profilo e che le sue parole, affilate come coltelli, sono l’ennesimo colpo a una reputazione già in caduta libera.
Tatiana Boutourline
Dalle piazze ai palazzi
Gli attacchi di Amsterdam trascinano i Paesi Bassi alla crisi di governo
Nella soffitta di Anne Frank