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Biden si ricandida o no? Dall'astronauta Kelly a Kamala Harris, ecco chi potrebbe sfidarlo
Il presidente degli Stati Uniti vuole far partire dalla Carolina del sud, anziché dai tradizionali Iowa e New Hampshire, la serie di primarie che dovranno decidere il candidato alla Casa Bianca. Un cambio della liturgia delle primarie democratiche è il segnale della sua possibile corsa al 2024
Joe Biden si è fatto un regalo importante per l’ottantesimo compleanno e in anticipo sul Natale: la South Carolina. Non è da tutti poter mettere sotto l’albero un intero stato, ma se sei il presidente degli Stati Uniti può succedere. Il dono sollecitato e ricevuto dal capo della Casa Bianca, rappresenta al momento la più forte indicazione che Biden intende riprovarci. Spera di essere di nuovo il candidato dei democratici il 5 novembre 2024, a due settimane dal proprio ottantaduesimo compleanno.
La conferma o la smentita arriveranno dopo le festività natalizie, presumibilmente tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Il momento in cui chi ha serie intenzioni di correre per la Casa Bianca deve cominciare a scoprire le carte. Ma l’indizio dell’orientamento di Biden è stata la decisione di un comitato speciale del Partito democratico di mettere la South Carolina all’inizio della serie di primarie che nel 2024 dovranno decidere il candidato alla presidenza. Una mossa che attende a gennaio la conferma dai vertici del Partito e che susciterà una rivolta furibonda da parte di Iowa e New Hampshire, i due stati dove per tradizione comincia la corsa alla Casa Bianca.
Sembra un dettaglio da addetti ai lavori, ma è una scelta che dice un milione di cose. Partire bene è fondamentale nella maratona americana che porta al voto del 2024 e i democratici sono stufi di affidare la partenza a due stati del nord che assomigliano sempre meno al resto del paese e pesano in un modo sproporzionato sulla scelta dei candidati. In generale, la Rust Belt degli stati industriali del nord a cui appartiene l’Iowa, così come l’area storica del New England dei “bramini” democratici alla Kennedy in cui rientra il New Hampshire, non sono più terre amiche per i democratici. Il partito punta al sud, alla Sun Belt, agli stati meridionali da cui fu cacciato negli anni Sessanta del secolo scorso, quando le svolte sui diritti civili dell’amministrazione Johnson spinsero a destra tutta l’area dal Texas alla Florida. Le cose sono cambiate, i flussi migratori hanno mutato il volto del paese e adesso è proprio al sud che si aprono le migliori opportunità per i democratici.
E tra gli stati del sud, non ce n’è uno più amico di Biden della South Carolina. Due anni fa, è qui che si salvò la sua corsa alla candidatura dei democratici, che sembrava vicina al naufragio. I caucus dell’Iowa si erano impantanati, con conteggi e riconteggi durati vari giorni alla fine dei quali fu dichiarato vincitore il giovane Pete Buttigieg, inseguito da Bernie Sanders, beniamino dell’ala più radicale del partito e con Biden distante. Pochi giorni dopo, in New Hampshire, le parti si invertirono: primo Sanders, secondo Buttigieg. Terza tappa in Nevada e vittoria di nuovo di Sanders, che a quel punto sembrava il predestinato.
Poi arrivò la quarta tappa, South Carolina, 29 febbraio 2020. Mentre il mondo scopriva il Covid e si avviava verso i lockdown, Joe Biden piazzò la vittoria della vita: 48,6 per cento contro il 19,8 per cento di Sanders. Fu la svolta, tre giorni prima del Super Tuesday in cui votano un gran numero di stati. L’avversario di Donald Trump fu deciso in quel momento, e così anche le sorti del voto di novembre 2020. La South Carolina ama Biden (ricambiata) come in precedenza aveva amato Bill Clinton e poi sostenuto il primo presidente nero, Barack Obama. In uno stato dove un quarto della popolazione è afroamericana e dove bisogna saper partecipare a lunghi incontri con le comunità locali, capirne lo slang, interpretarne gli umori e trascorrere con loro momenti lenti e carichi di memorie, Joe Biden ha sempre dato il meglio di sé. Il presidente gioca in casa quando percorre le strade di Charleston, in mezzo agli eleganti edifici coloniali e ai terribili ricordi di un’era in cui oltre la metà degli schiavi africani che giungevano in America sbarcavano proprio là. Nel 2020, la South Carolina lo riconobbe come un figlio prediletto, punendo invece Sanders e facendo praticamente uscire di scena Buttigieg e la battagliera Elizabeth Warren: tutta “gente del nord” che, ad avviso dei locali, non capisce le tradizioni, i problemi e neppure il cibo dei South Carolinians e appare marziana a chi frequenta le corse automobilistiche della Nascar o le partite di football dei college dello stato.
E’ per questo che il fatto che il presidente Biden abbia chiesto esplicitamente e ottenuto dal comitato Rules and Bylaws dei democratici di piazzare la South Carolina all’inizio delle primarie, il 3 febbraio 2024, è un segnale molto forte dell’intenzione di provarci ancora. O quantomeno di una riflessione in corso nella quale lasciarsi aperta ogni possibilità: intanto piazziamo le pedine in posizioni strategiche, poi staremo a vedere, è il ragionamento della Casa Bianca.
“Biden in questo modo si è creato un firewall, un muro di protezione contro qualsiasi insurrezione nel partito: non significa che correrà di sicuro, ma certamente suggerisce che vorrebbe farlo”: parole di David Axelrod, uno che se ne intende. Nel 2008, da stratega capo della campagna di Obama, fu lui a organizzare la vittoria in South Carolina che rilanciò la campagna del futuro primo presidente nero, combattendo contea per contea contro il team di Hillary Clinton, che da quelle parti poteva contare sull’enorme popolarità del marito ex presidente.
Finora la liturgia delle primarie, democratiche e repubblicane, ha sempre seguito un copione che non cambia dai primi anni Settanta. Si debutta di solito a gennaio al freddo con i caucus dell’Iowa, poi ci si sposta nel piccolo e complicatissimo New Hampshire e le prime due tappe, insieme, sono già considerate un forte indicatore su chi può farcela. Una doppietta Iowa-New Hampshire, in particolare, garantisce una copertura mediatica tale da creare il ricercatissimo momentum, l’onda vincente che è il sogno di ogni campagna elettorale. Poi il circo si sposta in Nevada e quindi South Carolina, prima di affrontare il Super Tuesday. Un tour de force che normalmente screma il gruppo entro la fine di febbraio, lascia in campo solo i più forti e talvolta offre già verdetti finali.
I repubblicani, che hanno già Donald Trump in campo e attendono di capire chi lo sfiderà, al momento non sembrano voler cambiare il calendario del voto. Ma i democratici hanno posto le premesse per un terremoto. L’Iowa al momento non compare neppure tra i primi stati al voto e potrebbe venir saltato dal partito di Biden, ancora irritato per i ritardi e le complicazioni dei caucus del 2020. Il via avverrebbe quindi in South Carolina, seguito a ruota da Nevada e New Hampshire, e poi Georgia e Michigan, due “new entry” nella tornata pre-Super Tuesday.
Per la politica americana è un po’ l’equivalente della sosta di campionato della serie A in Italia per i Mondiali a novembre: qualcosa di così nuovo da rendere difficili le previsioni sugli effetti che avrà sulla corsa allo scudetto. Ma ovviamente le ipotesi di calendario permettono di raccogliere indizi su cosa aspettarci dai democratici.
Se Biden corre, diventa difficile per tutti nel Partito sfidarlo. In tempi recenti, in entrambi i partiti nessun presidente in carica è stato mai sconfitto nelle primarie e pochissimi sono stati costretti a difendersi da avversari interni. George Bush padre nel 1992 dovette gestire la sfida in casa da parte di un compagno di partito aggressivo e carismatico come Pat Buchanan, ma non fu mai una minaccia alla candidatura al secondo mandato (mai raggiunto: i sogni di Bush furono spazzati via dal giovane Clinton). Teddy Kennedy affrontò senza successo nel 1980 il presidente democratico Jimmy Carter e lo scontro in famiglia fece il gioco di Ronald Reagan. Lo stesso Reagan aveva provato quattro anni prima a far fuori il presidente Gerald Ford, anche in quel caso indebolendolo e facendo vincere Carter.
La prima mossa per i democratici tocca quindi al presidente in carica, che è uscito rafforzato e galvanizzato dalla tornata elettorale di midterm. Nei giorni scorsi ha portato a casa anche l’ultimo seggio che mancava in Senato, quello della Georgia, concludendo con una vittoria di 51-49 che ben pochi pronosticavano prima del voto. La Camera è andata ai repubblicani, ma con un margine esiguo. In generale, poi, i candidati sponsorizzati da Trump sono andati malissimo e questo non solo indebolisce il tentativo dell’ex presidente di tornare nello Studio Ovale, ma rafforza Biden agli occhi di chi, nel suo partito, si lamentava che non fosse in grado di arginare il populismo trumpiano. Biden in realtà si sta rivelando un presidente molto forte e sottovalutato, un po’ come era stato Bush padre, che ha dovuto attendere anni prima che gli storici ne cominciassero a rivalutare la politica realista e pragmatica. Il vero e unico punto debole del presidente resta l’età. E potrebbe essere la ragione, alla fine, della sua rinuncia.
Se Biden si sfila dalla corsa, si scatenerà un’epica battaglia per la nomination democratica che a questo punto, però, risentirà delle scelte di calendario decise su sua indicazione. Partire dalla South Carolina e abbandonare l’Iowa è un forte svantaggio per esempio per Buttigieg, che ha molta voglia di riprovare e molta più visibilità di due anni fa, grazie al lavoro da ministro dei Trasporti che gli ha affidato proprio Biden. Dare il via alla corsa da Charleston mina anche le ambizioni della scalpitante sinistra del partito, da Sanders alla popolarissima Alexandria Ocasio-Cortez, che comunque sembra troppo giovane per questo giro di pista presidenziale: compirà 35 anni, età minima per la candidatura, meno di un mese prima del voto del 2024.
Potrebbe essere invece un vantaggio per Kamala Harris, che non scalda i cuori e non ha certo entusiasmato nei suoi primi due anni da vicepresidente, ma che ne ha altri due per rifarsi e gode del vantaggio e della visibilità di chi lavora già alla Casa Bianca. Il calendario sembra giocare a favore anche di Gretchen Whitmer, che ha vinto alla grande la riconferma come governatrice del Michigan, ha la fama di dura, è stimata e apprezzata nel partito e avrebbe il vantaggio di avere il proprio stato tra i primi ad esprimersi: da tenere d’occhio con grande attenzione, la sua potrebbe essere una candidatura che decolla.
Partire in South Carolina non farà sorridere Elizabeth Warren, che qui si è già schiantata due anni fa, mentre potrebbe non dispiacere alla senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, che è assai più solida e stimata di quanto non fosse al primo tentativo presidenziale: a 62 anni, sembra avere un profilo perfetto per la candidatura. Un paio di vicini di casa della South Carolina potrebbero farci un pensierino: Roy Cooper, da cinque anni governatore della North Carolina, e Raphael Warnock, che ha appena vinto la difficilissima sfida per diventare senatore della Georgia.
Tra gli outsider da tenere d’occhio, il profilo più intrigante ce l’ha Mark Kelly. Ex pilota di caccia nella prima Guerra del Golfo, ex astronauta della Nasa alla guida di varie missioni degli Space Shuttle, due volte eletto senatore dell’Arizona, marito di Gabby Giffords, una deputata democratica che stava scalando il Partito nel 2011, quando fu quasi uccisa da un folle che per eliminarla ammazzò altre sei persone che la stavano ascoltando in un comizio a Tucson. Kelly, che si divide tra la politica e le cure alla moglie, compirà 60 anni nell’anno del voto e sembra avere tutte le carte in regola per tentare una corsa alla Casa Bianca.
Molti altri scalpitano e ci stanno pensando, in attesa di capire cosa deciderà di fare Biden. Gente come il governatore del Colorado Jared Polis, appena rieletto e che piace molto a Washington: George Will, firma autorevole e saggia dei conservatori che gode di rispetto tra i progressisti, ha scritto sul Washington Post che per lui “è l’uomo che potrebbe rispondere alle preghiere dei democratici nel 2024”. Altri indicano il governatore del Kentucky Andy Beshear o il senatore del Montana Jon Tester come potenziali candidati pronti a provarci.
Poi ci sono i “piacioni” che i media e Hollywood vorrebbero sempre in corsa. Uno è Gavin Newsom, il governatore della California dal look patinato che sicuramente ci sta pensando, ma che probabilmente finirebbe male come Michael Bloomberg nel 2020. L’altra è Michelle Obama, che invece non ci pensa proprio e l’ha sempre detto, ma che viene spesso tirata per la gonna verso una candidatura. E’ più probabile che nel 2024 si riveda in campo il marito Barack, il più potente oratore di cui dispongono i democratici, in veste di anti-Trump e mobilitatore di folle a favore del candidato del suo partito, come ha già fatto con successo nella fase finale del voto di midterm.
La prossima mossa tocca a Biden, ma anche ai repubblicani. La strategia dipende anche da cosa succede in casa degli avversari. Se Trump riprende il controllo dei repubblicani, lo schema di gioco sarà tutto incentrato sulla scelta di chi è più adatto a fermarlo. Se scendono in campo il governatore della Florida Ron DeSantis e qualche altro pezzo da novanta dei repubblicani, sarà tutta un’altra partita. / di Marco Bardazzi