I missili di Xi Jinping fanno paura
L’arsenale cinese potrebbe essere più grande di quello americano. L’effetto deterrenza
“La globalizzazione è quasi morta e il libero scambio è quasi morto. Ci sono molte persone che ancora sperano che tornino, ma non credo che succederà”, ha detto l’altro ieri Morris Chang, il novantunenne fondatore della Taiwan Semiconductor Manufacturing Co., il colosso più importante del mondo dell’industria dei microchip. Il suo commento arriva nel momento in cui la Casa Bianca di Joe Biden sta cercando di escludere la Cina dalla catena di produzione e approvvigionamento di microchip, coinvolgendo anche paesi come l’Olanda (il ministero del Commercio olandese sta per promuovere una misura simile, ha scritto ieri Bloomberg). E’ una rivoluzione delle relazioni internazionali che sta accelerando negli ultimi mesi, soprattutto dopo l’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina. Dietro non c’è solo una questione di dominio tecnologico, ma una strategia più ampia che mira a rallentare l’ascesa della Cina come superpotenza, anche militare. Secondo l’ultimo China Military Power Report, il rapporto annuale che il Pentagono invia al Congresso, la Cina è “l’unico sfidante con l’intento, e sempre più la capacità, di rimodellare l’ordine internazionale”. Non la Russia, ma la Cina.
Una notifica segreta inviata dallo Strategic Command americano al Congresso, qualche giorno fa, ha fatto allarmare gli osservatori: lo Stratcom è infatti obbligato a fare questo tipo di comunicazioni se la Cina supera l’America in numero di testate nucleari (sarebbero più di 400, quelle cinesi) e nel numero di missili balistici intercontinentali (sui quali, secondo gli esperti, l’America avrebbe ancora il primato). A preoccupare Washington è anche l’attività di collaborazione di Pechino con altri paesi per lo sviluppo di armamenti – secondo l’intelligence americana l’Arabia Saudita sta fabbricando missili balistici con l’assistenza cinese – e nella proiezione internazionale dell’Esercito popolare di liberazione. Secondo un report pubblicato ieri dal think tank Rand corp, dopo la prima apertura di una base militare all’estero, in Gibuti, nel 2017, la Cina ha costantemente aumentato la sua presenza militare all’estero: in Cambogia, nelle isole Salomone, ad Abu Dhabi, e nei prossimi vent’anni potrebbe aprire diverse basi per proteggere gli interessi cinesi all’estero.
La leadership sempre più autoritaria di Xi Jinping pone un problema economico globale, un altro di sicurezza nazionale – che riguarda solo in parte la questione delle “stazioni di polizia cinesi” ma pure il settore delle reti di telecomunicazioni, dei dati sulle piattaforme online. Ma c’è anche un terzo ambito, del quale si inizia a parlare sempre più apertamente al dipartimento della Difesa americano, e riguarda la capacità militare cinese. Fino a qualche anno fa, Pechino era considerata molto indietro dal punto di vista della capacità di deterrenza bellica: non aveva missili, armi, la tecnologia per produrli. Nel giro di pochissimo tutto è cambiato. In Europa il problema non è avvertito così urgente, ma per l’America la capacità di Difesa cinese sta cambiando anche i rapporti di forza tra Washington e Pechino. Anche per questo la Nato è sempre più coinvolta nella questione della “sfida cinese” – “dobbiamo tenere conto del fatto che l’ascesa della Cina potrebbe distruggere la nostra sicurezza. Stanno investendo molto in nuove e moderne capacità tecnologiche. […] E la Cina si sta avvicinando a noi”, ha detto l’altro ieri il segretario generale Jens Stoltenberg a un evento del Financial Times.