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Harry e Meghan per Netflix: una storia che consacra la monarchia come grandeur contro piccineria
Zuccheroso e insincero, nella serie, il rigetto ostentato del mondo delle convenzioni. Lui è bellino e sarebbe anche simpatico. Lei è troppo donna, una Anna Bolena che non si può decapitare
Mi pare che Shakespeare, ma non ne sono sicuro, considerasse l’amore mostruoso, perché fatto di desiderio infinito e prestazione finita, limitata, un divario esiziale. Quello di Harry e Meghan dopo Netflix vogliamo considerarlo amore senz’altro, sarebbe volgaruccio dubitare della infatuazione genuina e gregaria di lui e della determinazione commediante e populista di lei, non incompatibile con un amorazzo. La prestazione di questa amorosa mostruosità desiderante resta però limitata, una noia appunto mostruosa, una ripetitività che più banale non si può. D’altra parte si dice che les amours des autres sont abominables. Il loro rapporto, o come si chiama, è pieno di tenerezza, complimentucci, cipiripì, ulteriormente mostrificato da un tono medio piccolo borghese che stinge sul blasone dei duchi, senza un filo di humour, narciso & narcisa, molto redditizio e appunto abominevole.
Colpisce sopra tutto la implicata rivalorizzazione del contegno dei reali d’Inghilterra. La Bbc ci ha mostrato tre mesi fa il passo perfetto del ballo funebre corale per la morte di Elisabetta, un caso di amore collettivo metaforico e demostrificato dalla grandiosa compostezza religiosa del cerimoniale, l’unico caso di one love accettabile per noi vecchi bacucchi del Novecento. Al confronto, i praticelli e i tramonti new age di Montecito, il lusso pacchiano non riscattato dalla tradizione degli arredi e delle location, quel recitare l’antirazzismo andante tutto attuzzi e mossette, tutto depone a sfavore della storia d’amore, diciamo così, che dovrebbe svellere la robusta costituzione della monarchia britannica e invece la consacra come grandeur contro piccineria.
Lui è bellino e sarebbe anche simpatico nella sua ebbrezza di scampato agli appuntamenti di corte e a un destino di emarginazione nella successione, lei è troppo donna, è così tanto donna, così tremendamente perfetta nella parte della fidanzata e poi della mugliera commoner del prence, da lasciare uno spazio mentale inaudito alle peggiori tentazioni misogene che abitano i cuori dei maschi.
Poverina, non sapeva che avrebbe dovuto fare la riverenza alla nonna di lui, lo considerava assurdo, una gabbia di convenzione o di contenzione dalla quale fuggire alla prima occasione. Una regna più a lungo della Regina Vittoria, si vede scorrere davanti un secolo o quasi di guerra e pace, di primi ministri, di storia europea, sempre con gli stessi adorabili cappellini, sempre con la manina che saluta allo stesso identico modo, sempre con il sorriso e lo sguardo più iconici dell’universo, e le tocca una nuora troppo consapevole o troppo ignara per mantenere il titolo di Altezza Reale, una Anna Bolena che non si può nemmeno decapitare perché non ha propriamente la testa sulle spalle.
Scherzo, naturalmente, e vado un po’ in acido solo perché trovo pietosamente spontaneo, inutilmente gratificante, zuccheroso e insincero questo rigetto ostentato del mondo delle convenzioni, questo appartarsi per rilanciarsi, questa crociata della vita minima e vivibile, oh sì, perfettamente vivibile, contro le regole della casa, che hanno una loro pregnanza se non bellezza, un loro significato. Netflix, tre mesi dopo l’epopea fin de race della Bbc, ha voluto dar voce e mercato a una piccola storiella amorosa che un significato decente non lo trova e non lo cerca nemmeno. Se non nella morale del ciascuno-fa-quel-che-desidera; ma, appunto, il desiderio è infinito, la prestazione limitata e imperfetta.