per la democrazia
Ucraini e iraniani difendono anche la nostra libertà. È ora di dire grazie
Alla “fatica” della guerra e al coraggio delle piazze contro il regime di Teheran si risponde con molta gratitudine, perché difendendo il loro "desiderio di una vita normale" questi popoli stanno difendendo anche il nostro
Gli ucraini resistono al freddo, al buio, ai traumi dell’occupazione, alle mine disseminate ovunque, alle bombe che cadono indiscriminatamente su tutto il paese (sono quasi nove mesi), nonostante i tanti annunci falsi di Vladimir Putin su ritiri e riorganizzazioni che sono soltanto serviti ad aumentare pressione e brutalità. Gli iraniani resistono alla paura degli spari ad altezza occhi, delle impiccagioni in pubblico, degli arresti – diciottomila, e crescono – sfidando la furia del regime degli ayatollah che si fa feroce giorno dopo giorno (sono quasi tre mesi), per le strade e ancor più nelle prigioni. Queste piazze stanno dimostrando ai paesi occidentali che cosa vuol dire lottare per la libertà, qual è il suo prezzo e qual è il suo peso, dando un significato concreto – e drammatico e potentissimo – alla nostra retorica sulla democrazia da difendere in ogni angolo, fiore fragile che ci garantisce benessere e futuro. Dopo tanto rimuginare sulle debolezze dei nostri sistemi democratici ecco che queste piazze, queste case a lume di candela, ci mostrano quel che davamo per scontato. E’ ora di dire: grazie.
Nella sua intervista al presidente ucraino Volodymyr Zelensky in una stazione della metropolitana di Kyiv, David Letterman ribadisce più volte la sua gratitudine – la sua è anche la nostra. Mentre gran parte dell’opinione pubblica occidentale e una parte (per fortuna non troppo grande) dei politici conservatori americani dicono che la guerra sta durando troppo, costa troppo, leva risorse e sembra infinita e chiedono agli ucraini di fermarsi quando è evidente che se si fermassero i russi la guerra finirebbe – ecco mentre cresce la cosiddetta fatigue, Letterman si ricorda di dire, tra una domanda sulla routine quotidiana e sulle chiacchiere con i figli di Zelensky, grazie. Fermando l’avanzata dei russi gli ucraini hanno aumentato la sicurezza per tutti, scrive lo storico Timothy Snyder, “lo scenario di un conflitto largo con un rischio nucleare è molto meno probabile adesso” – anche uno scontro americano-cinese su Taiwan lo è, o almeno è rimandato. “Per i politici e gli esperti di sicurezza americani è letteralmente stupefacente che un altro paese possa fare così tanto per la sicurezza americana”, scrive Snyder e questo vale ancora di più per noi europei che siamo più vicini alla Russia e che per molto tempo ci siamo lasciati guidare dall’illusione che Putin non sarebbe mai arrivato a tanto.
Sicurezza e libertà vanno di pari passo, e quando Zelensky dice a Letterman che al momento del suono delle sirene non c’è molto che si possa fare ma che lui si batte perché questo stato di guerra non diventi la normalità, parla di questo passo a due: l’Ucraina vuole mettersi al sicuro perché soltanto così potrà garantire libertà e una vita migliore ai suoi cittadini. Ma mentre lo fa per salvare se stessa dai “barbari”, qui e oggi salva anche noi. Fin dall’inizio dell’invasione, a febbraio, questa è stata la posta in gioco: mentre i cosiddetti pacifisti si preoccupavano che circolassero troppe armi dalle parti degli ucraini senza preoccuparsi di quelle (usate senza regole) a disposizione di Putin grazie anche ai suoi solerti alleati dispotici, gli ucraini stavano difendendo anche la loro libertà di dire, pensare, desiderare. Mosca voleva rendere l’Ucraina un hinterland russo: il suo obiettivo era capovolgere il governo di Kyiv per far diventare il paese un altro protettorato russo, un’altra Bielorussia come dicono gli oppositori bielorussi quando ribadiscono la loro solidarietà alla causa ucraina.
E sappiamo fin troppo bene che una volta concessa una violazione – come accadde nel 2014 in Crimea e nell’est ucraino – le altre diventano pretese o rivendicazioni. In tutto il tempo che abbiamo perso a non provocare Putin, lui ha scatenato una guerra, e il coraggio di Zelensky, che abbiamo scoperto essere rappresentativo del carattere di tutto un popolo, ha fatto sì che il piano di esportazione dell’autoritarismo con la forza voluto da Putin si fermasse. E desse un segnale non soltanto a noi, che la libertà la diamo per scontata, ma anche agli altri despoti che pensavano di poter usufruire per sempre dell’impunità.
Karim Sadjadpour, che si occupa di Iran al Carnegie Endowment for International Peace, ha scritto sul New York Times: “Le proteste in Iran rappresentano una battaglia storica che contrappone due forze potenti e inconciliabili: una popolazione prevalentemente giovane e moderna, orgogliosa della sua civiltà che ha duemilacinquecento anni e desiderosa di cambiamenti, contro un regime teocratico invecchiato e isolato, impegnato a preservare il proprio potere e immerso in 43 anni di brutalità”. Lo schema è lo stesso: il coraggio. “La Repubblica islamica ha governato a lungo attraverso la paura, ma ci sono sempre più segnali del fatto che la paura si sta dissipando” tra i manifestanti e gli iraniani, scrive Sadjadpour, che è una straordinaria inversione di segno dei meccanismi di terrore adottati dai regimi. Nella canzone della protesta iraniana, Baraye, c’è “il desiderio di una vita normale”, che è quella che chiedono gli ucraini, ed è per questo che dobbiamo essere grati, perché difendendo questo loro desiderio questi popoli stanno difendendo anche il nostro, e pagano tutto il conto.