La fine della pax spaziale

Russia, Cina e Iran. Stanno cambiando le alleanze nello spazio, e non solo

Giulia Pompili

Mosca e Teheran collaborano per i satelliti, e Pechino, sempre più forte nel campo tecnologico, li benedice. Come la pax economica, anche la pax spaziale è finita

Ieri Hassan Salarieh, direttore dell’Agenzia spaziale iraniana, e Yuri Borisov, capo dell’Agenzia spaziale russa Roscosmos, si sono incontrati sull’isola di Kish, nel sud dell’Iran, dov’è in corso la Iran International Airshow & Aerospace Exhibition, e hanno firmato alcuni accordi per rafforzare la cooperazione nel settore spaziale. Il più importante è quello sui satelliti, la loro costruzione e la capacità di elaborarne i dati. Solo quattro mesi fa, dal cosmodromo russo di Baikonur, era stato lanciato il primo satellite iraniano, Khayyam, progettato a Teheran e assemblato e lanciato dai russi.  Khayyam è un satellite spia, raccoglie immagini ad alta risoluzione ed è ufficialmente un sistema di “monitoraggio ambientale”. Il rafforzamento della cooperazione tra Russia e Iran è stato benedetto dalla Cina, che ieri rilanciava la notizia sui suoi media di stato. Pechino in questo momento sta accelerando sul suo programma spaziale, e una settimana fa ha completato la stazione spaziale orbitante Tiangong, il “palazzo celeste”.


Ufficialmente, tutto quello che riguarda il settore spaziale e l’industria aerospaziale può avere un obiettivo puramente scientifico e civile. La tecnologia che si usa per esplorare lo spazio però è la stessa che si usa nella Difesa – si chiama tecnologia dual use, come i razzi lanciatori dei satelliti, per esempio – e così la tecnologia che facciamo orbitare attorno alla terra, come i satelliti o le costellazioni di satelliti come quella di SpaceX, può essere molto utile, a volte essenziali, in caso di guerra. Da tempo ormai si parla di una competizione che riguarda lo spazio, di nuovi paesi competitivi e di nuove alleanze che si vanno formando. La pax economica, cioè la diplomazia e i rapporti internazionali basati sulla capacità di fare scambi e business, è stata dichiarata archiviata dopo l’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina. Ma nei settori scientifico e tecnologico non è andata molto diversamente. E la fine della pax spaziale, in realtà, non riguarda soltanto il mondo extraterrestre ma in generale tutto l’ecosistema tecnologico e scientifico. Biden rafforza il controllo delle esportazioni dei chip per limitare le capacità di una potenza aggressiva e autoritaria come quella cinese: di fatto, usa  il controllo del business per ragioni  politiche. Non solo: anche ogni grande annuncio di scoperta scientifica, di successo tecnologico, è accompagnato da una motivazione politica.


L’altro ieri, quando il dipartimento dell’Energia americano ha svelato al mondo lo storico successo sulla potenziale produzione di energia tramite fusione nucleare, lo ha fatto per celebrare la riuscita della ricerca scientifica, ma c’era anche un significato politico: mostrare al resto del mondo, soprattutto ai paesi bellicosi e autoritari, la resilienza dell’occidente nel mezzo di una grave crisi energetica. La stampa cinese ha rilanciato l’annuncio americano minimizzando i risultati (“il successo dell’esperimento è ancora lontano dall’obiettivo della fusione nucleare controllata per uso commerciale, e non è progettato come un impianto energetico commerciale”, si leggeva ieri sul Global Times) sottolineando un annuncio simile fatto dalla Cina, guarda caso, solo un mese e mezzo fa. Allora i ricercatori del reattore HL-2M Tokamak nello Sichuan avevano stabilito un nuovo record di funzionamento. E’ più o meno quello che è successo (e sta succedendo) nell’ambito dei quantum computing, dove America e Cina si sfidano ormai da anni – Donald Trump, per cercare di limitare la corsa di Pechino al predominio sulla tecnologia, promise per lo scorso anno fiscale un finanziamento di 237 milioni di dollari, con un incremento del 20 per cento della spesa destinata a intelligenza artificiale e del computer quantistico. Per Pechino il vantaggio, per ora, resta quello di non dover far approvare alcun bilancio. 


Nelle stesse ore in cui l’attenzione del mondo era rivolta all’annuncio del dipartimento dell’Energia, il Pentagono rendeva noto al pubblico un altro esperimento avvenuto con successo. Per la prima volta, la scorsa settimana, l’America ha testato con successo un missile ipersonico. L’Agm-183A è stato lanciato al largo delle coste della California del sud e potrebbe essere il primo operativo nelle Forze armate americane. Nell’agosto del 2021, quando la Cina aveva affermato di aver testato con successo un missile ipersonico, in molti l’avevano definito un “momento Sputnik” per gli Stati Uniti. Il lancio americano di qualche giorno fa dimostrerebbe che l’America sta cercando di recuperare terreno su una tipologia di missili che sarebbe già a disposizione di Cina e Russia. Ieri il Quotidiano del popolo cinese riportava la notizia del lancio americano sottolineando che era avvenuto “dopo una lunga serie di fallimenti”. 
“Ci sono poche, pochissime nazioni che non vogliono essere nostre partner”, ha detto l’altro ieri al Nikkei l’amministratore della Nasa Bill Nelson. “La Cina è una di queste. E’ sempre stata molto riservata”. E poi, riferendosi al progetto della Cina, che in collaborazione con la Russia vuole costruire una stazione spaziale permanente sulla luna, Nelson ha detto: “I think we’re in a race with China”, è una competizione quella con la Cina. Se la pax spaziale è finita, Pechino sa benissimo con quali paesi allearsi. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.