La vita a Mariupol, il regime russo e le bottigliette col nome sotterrate coi morti
L’albero nella città in cui si aspetta solo che tornino gli ucraini, il gemellaggio con San Pietroburgo e l’alcol come unico bene non scarso
Milano. “Sono morti di fame e di freddo. Riesci a immaginare che una cosa del genere succeda nel 2022 in Ucraina? Sono stati sepolti davanti a casa loro, tecnicamente ‘in cortile’”. Yulia e suo marito Oleksandr hanno fatto il percorso inverso di tutti quanti gli abitanti di Mariupol, la città ucraina del sud che è stata occupata dai russi il 20 maggio dopo una resistenza straordinaria, e sono tornati in città per dare sepoltura ai genitori di Oleksandr, morti di fame e di freddo, hanno raccontato al Kyiv Independent. Tutti scappavano e loro facevano ritorno, anzi soltanto Yulia l’ha fatto, perché bisognava per forza fare il giro dalla Russia e suo marito non poteva lasciare l’Ucraina per la legge marziale.
Era giugno quando è arrivata, voleva fare in fretta perché aveva paura che nella “ricostruzione” dei russi, che stavano demolendo tutto quello che era stato danneggiato nei loro bombardamenti (cioè la stragrande maggioranza dei palazzi) e cancellando le tracce dei loro crimini, anche la casa dei suoi suoceri finisse per essere smantellata senza che i corpi sepolti venissero riesumati. I vicini le hanno raccontato che suo suocero era rimasto morto davanti a casa per un po’: continuavano i bombardamenti, non si riusciva a stare all’aperto; poi era morta anche la suocera ed entrambi erano stati sepolti in quelle che vengono chiamate le “tombe superficiali” con una bottiglietta di plastica vicino, dentro un foglietto con i loro nomi. Anche i russi in quel momento andavano a caccia dei morti perché quelle sepolture superficiali erano pericolose dal punto di vista sanitario: setacciavano i giardini, caricavano cadaveri sui camion, compresi quelli del teatro che era protetto da una barriera in modo che nessuno vedesse che cosa era accaduto dopo il bombardamento di marzo che i russi avevano sdegnosamente negato di aver commesso prendendosela con “le lagne” degli occidentali.
Ora l’amministratore della città Kostiantyn Ivashchenko ha annunciato che farà portare un albero di Natale alto venti metri nella piazza Lenin (che prima si chiamava piazza della Libertà e che i russi hanno rinominato) e che ci sarà anche “un albero dei desideri” per i bambini. Il tutto è stato sponsorizzato dalla città di San Pietroburgo perché il governatore, Alexander Beglov, già dall’estate aveva annunciato il gemellaggio delle due città, suggellato con due cuori al neon che si intrecciano nella piazza del Palazzo, 100 milioni di rubli (1,5 milioni di dollari) stanziati per Mariupol e una “visita culturale speciale” a San Pietroburgo durante le feste per i bambini della città ucraina occupata dai russi. La propaganda dei russi sta facendo il giro dei media per dimostrare non soltanto che Mariupol è ben gestita e in ristrutturazione, ma che le persone hanno voglia di festeggiare con i russi e grazie a loro. Il sito Vazhnye Istorii, un media indipendente russo, ha raccolto qualche giorno fa delle testimonianze di alcuni abitanti di Mariupol: il senso generale – anche se sono i dettagli a essere strazianti – è che si pensa a sopravvivere. Manca il riscaldamento, molte case sono danneggiate, gli ingressi sono adibiti a piccole comuni per condividere il poco cibo e il poco calore. “Si vive giorno per giorno e non si pianifica nulla”, dice una donna che vive in una casa in cui mancano due finestre con un figlio piccolo cui ha insegnato che mangiare una patata quotidianamente è un lusso.
Nessuno ha la forza di chiedere agli abitanti di Mariupol cosa vedono dopo la sopravvivenza, i nostri occhi sono pieni di com’era la città, l’albero di Natale tutto d’oro e gigante nella piazza davanti al teatro, la vita di una città di 400 mila persone diventata spettrale a causa dell’aggressione del Cremlino, che qui era stimato e rispettato. Il paragone è spietato come spietata è la storia di questa città sequestrata, resa inaccessibile fin da subito (a gennaio viene presentato il documentario dei tre giornalisti dell’Associated Press che sono usciti per ultimi da Mariupol, si intitola “20 giorni a Mariupol”), affamata, distrutta, umiliata dai video “della resa”, come la chiamano i russi. Maria racconta che alla tv c’è solo propaganda russa martellante che un po’ attecchisce soprattutto “nelle mie parenti più anziane”; che l’alcol costa pochissimo e circola molto, è l’unica risorsa che non scarseggia e quindi “gli uomini soprattutto” ne bevono in quantità. Quanto a lei dice: “Sto soltanto aspettando che tornino gli ucraini”.