La mobilitazione mostra che la parola di Putin vale più della legge
La coscrizione prosegue anche se finita. Ai russi viene detto di non credere ai decreti del presidente ma a ciò che dice
La mobilitazione parziale, annunciata dal presidente russo Vladimir Putin il 21 settembre scorso, non ha invertito le tragiche sorti della guerra scatenata contro l’Ucraina, ma ha semmai contribuito a seminare il panico nel popolo russo, costringendone una parte considerevole all’esodo verso paesi del Caucaso o dell’Asia centrale. Secondo le stime del Cremlino, la mobilitazione avrebbe dovuto coinvolgere non più di 300 mila uomini, individuati esclusivamente tra i riservisti o gli ex-militari. Quanto accaduto per tutto il mese di ottobre mostra che, in realtà, la cifra è da correggere al rialzo (secondo uno studio del canale indipendente Mediazona si tratterebbe di quasi 500 mila persone) e la chiamata alle armi ha interessato anche studenti universitari, anziani e individui con patologie croniche, tutte categorie di persone che, in teoria, avrebbero dovuto esserne esentate. Il 31 ottobre, sentito il ministro della Difesa, il presidente Putin ha infine dichiarato conclusa la mobilitazione, confermando l’arruolamento di 318 mila persone, tra cui 18 mila volontari.
Senonché, per tutto il successivo mese di novembre, alcuni attivisti dei diritti umani presenti in Russia hanno documentato come in diverse aree della Federazione la chiamata sia continuata in maniera strisciante. Da un punto di vista giuridico, la mobilitazione si è svolta sulla base di un decreto del presidente cui sono succeduti ordini diramati dal ministero della Difesa e, soprattutto, atti amministrativi dei governatori regionali, tanto è vero che le diverse modalità di conduzione della mobilitazione a seconda della regione di residenza hanno fatto parlare di una sorta di “federalismo bellico”. Nonostante la proclamata fine dell’arruolamento, da alcune settimane i media russi di opposizione riparati all’estero, tra tutti Meduza, hanno messo in luce come, al decreto di annuncio della mobilitazione del 21 settembre, non abbia fatto seguito da parte del presidente un decreto di annuncio della sua conclusione, il che renderebbe ancora perfettamente lecito l’invio di cartoline di leva da parte dei commissariati militari. La circostanza, del resto, non è casuale, visto che sui canali Telegram si rincorrono le voci di una nuova ondata di mobilitazione prevista nella prima metà del mese di gennaio.
Per questa ragione, le minoranze parlamentari di cinque assemblee legislative regionali (Mosca, San Pietroburgo, Carelia, Pskov e Velikij Novgorod), appartenenti all’unico partito di opposizione liberaldemocratica rimasto operativo in terra russa, Yàbloko, hanno scritto al presidente Putin per chiedergli di firmare subito un decreto che sancisca formalmente la fine della mobilitazione. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskòv, ha replicato che, stando al dipartimento affari giuridici dell’amministrazione presidenziale, tale decreto non sarebbe giuridicamente necessario, ma basterebbe, semmai, aver raggiunto il target di 300 mila uomini da mobilitare. In realtà, questo numero compare soltanto nei comunicati stampa del Cremlino mentre non risulta da nessun atto ufficiale. La cifra complessiva di individui da arruolare sarebbe, infatti, contenuta nel secretato art. 7 del decreto presidenziale e, secondo le informazioni di cui dispone il noto avvocato per i diritti umani Pavel Chikov ammonterebbe, in realtà, a 1,2 milioni di uomini.
Adottare un decreto di conclusione della mobilitazione sarebbe, quindi, del tutto prematuro rispetto agli obiettivi dell’“operazione militare speciale”, specie se si considera che, nel frattempo, con altri decreti presidenziali di inizio novembre, è stata disposta l’applicazione della legge marziale in diverse aree della Federazione, mentre con legge federale è stato contestualmente dato il via libera all’arruolamento di alcune categorie di condannati in via definitiva per gravi reati. Come osservato dall’americano Institute for the Study of War (Isw), l’annunciata conclusione della mobilitazione parziale potrebbe, quindi, avere a che fare più che altro con ragioni di carattere organizzativo: il 1° novembre ha preso, infatti, avvio l’ordinario servizio di leva annuale per 120 mila nuovi coscritti di età compresa tra i 18 e i 27 anni, i quali, a differenza dei loro colleghi del precedente anno di coscrizione non dovrebbero essere inviati in Ucraina. Onde evitare il ripetersi degli episodi di caos che hanno caratterizzato le prime settimane di mobilitazione, quando i commissariati militari non riuscivano a far fronte in maniera ordinata alle direttive impartite dal centro, il Cremlino pare, insomma, aver preferito quantomeno sospendere le operazioni, anche considerata la situazione di relativo stallo al fronte. Fatto sta che lo stato di mobilitazione, quantomeno per chi ne è stato interessato tra settembre e ottobre, perdura, come attestato da due pronunce giudiziarie del mese di novembre, la prima del Tribunale militare di Odintsovo, nella regione di Mosca, avente a oggetto la condanna di un mobilitato per violenze perpetrate nei confronti del proprio comandante, avvenute il 13 novembre, “nel corso dell’esercizio dei propri doveri d’ufficio rientranti nell’ambito della mobilitazione parziale” e la seconda del Tribunale militare di Chita in Siberia, avente a oggetto il rigetto di un’istanza di risoluzione del contratto di un militare in servizio dal 2020, considerato che l’art. 4 del decreto presidenziale stabilisce che tutti i contratti stipulati dai militari con le forze armate restino validi, anche oltre la loro scadenza, per tutto il periodo della mobilitazione.
La mobilitazione dunque non è finita, ma al popolo russo è comunque chiesto di non dubitare delle parole del presidente. In un’intervista al quotidiano Vedomosti il giurista e senatore di Russia Unita, Andrej Klishas, ha chiarito che “da un punto di vista della legittimità, nel nostro paese non c’è nulla che abbia una forza maggiore della parola del Presidente… Pensate forse che un decreto abbia una forza superiore a quella della parola? A me pare di no e in ogni caso non ce l’ha nella percezione delle persone”. Si tratta di un’osservazione di un certo interesse, non soltanto perché la diffusa percezione della cogenza di quanto meramente dichiarato da una pubblica autorità fa talora breccia persino negli ordinamenti tradizionalmente fondati sulla supremazia della legge, ma anche e soprattutto perché si ricollega a un aspetto dirimente del rapporto tra stato e società in Russia, ove la rule of law non si è mai davvero radicata.
Già ai tempi dell’Impero zarista, che ha vissuto una debole occidentalizzazione delle proprie istituzioni soltanto tra il 1861 e il 1917, ciò che realmente contava erano, infatti, la parola e l’azione del sovrano ed esse non potevano essere messe in dubbio, pena la denuncia per alto tradimento. Persino in un contesto di flebile occidentalizzazione, come ricorda il recente volume dello storico Giovanni Savino “Il nazionalismo russo, 1900-1914: identità, politica, società”, (Federico II University press), il fatto che, nel 1911, un primo ministro come Pëtr Stolypin non si fosse fidato della parola dello zar Nicola II e gli avesse, anzi, chiesto un impegno scritto in vista della promozione di alcune riforme, ne determinò l’emarginazione. Che il potere russo abbia un’aura sacrale – lo zarismo moscovita aveva natura divina proprio come le autocrazie sulle quali aveva prevalso, ossia il khanato mongolo e l’impero bizantino – e non sia quindi sottoposto a procedure giuridiche che ne consentano il controllo è rimasto vero anche successivamente, in presenza di un regime per molti aspetti diverso.
Scrive Harold Berman nel suo eccezionale volume “Giustizia nell’Urss. Un’interpretazione del diritto sovietico”: “Questo movimento verso la ragione, l’analisi, la legalità è seriamente ostacolato dal fondamentale credo che la vita è essenzialmente al di là della ragione e della legge; (…) intere sfere rimangono ancora fuori dalla legge, particolarmente nel settore della politica e delle decisioni politiche, dove si fa affidamento sui fattori non razionali e non legali della forza e della violenza, da un lato, e della unità morale e della fede comune, dall’altro. La personalità dei governanti gioca ancora un ruolo preminente; l’influenza personale è un fattore cruciale nell’impedire il movimento per la stabilità delle leggi”. A trent’anni dalla fine dell’Urss, la Costituzione del 1993, nata in un quadro di rinnovato occidentalismo, è stata stravolta dalla revisione autocrate del 2020. Per sapere che ne sarà della mobilitazione i russi non possono, quindi, che pendere dalle labbra del presidente.