Zalensky a Bakhmut (Foto Ansa) 

il viaggio nel donetsk

La visita di Zelensky sul fronte della guerra a Bakhmut è straordinaria

Paola Peduzzi

Per trecento giorni il presidente dell'Ucraina ha tenuto accesa “la luce dentro” al suo paese nonostante la guerra. Non è soltanto un bravissimo comunicatore ma incarna e proietta il carattere del suo popolo, quel misto invincibile di coraggio e ironia

Al trecentesimo giorno della guerra di Vladimir Putin in Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky è andato a Bakhmut, nel Donetsk, il fronte della guerra. Si è presentato non annunciato, ha portato le medaglie per i soldati che lì combattono da molto tempo, ha stretto le mani, ha guardato negli occhi questi uomini che mantengono la posizione, ricacciano indietro i russi, ha detto che avrebbe voluto portare la luce, ma l’elettricità è quella che è, però “quel che conta è la luce dentro”. Zelensky ha acceso questa luce il primo giorno dell’invasione russa a febbraio quando disse agli americani che gli offrivano un modo per lasciare l’Ucraina “ho bisogno di munizioni non di un passaggio”, e non l’ha più spenta. Zelensky ripete sempre che non vuole che la guerra diventi una normalità, che la tenacia e la resistenza degli ucraini non devono far pensare che sia possibile una convivenza con la guerra: la guerra va vinta e basta, non ci si adatta al conflitto, al buio, al freddo, alla distruzione, alla morte come compagnia quotidiana. Allo stesso tempo non dobbiamo pensare che sia normale routine la visita a un fronte di guerra sotto attacco continuo: è un gesto straordinario.

 

E non soltanto perché il paragone immediato è con Vladimir Putin, che predilige i messaggi registrati, gli incontri con in mezzo il tavolone, gli abbracci tra ghiaccio e fiori con il fedelissimo dittatore bielorusso o al limite un silenzio strategico che serve a riorganizzarsi. La leadership di Zelensky è unica in senso assoluto, non relativamente a quella di Putin, e non c’entra nemmeno soltanto il fatto che per tutta la vita prima di diventare presidente lui sia stato un attore e un manager della comunicazione. Di certo il modo con cui Zelensky parla con il suo popolo e con gli alleati internazionali è diventato un punto di riferimento: la costanza dei messaggi quotidiani agli ucraini, la capacità di trovare le parole per descrivere ogni momento in modo precisissimo, gli appelli chirurgici agli interlocutori internazionali, i ringraziamenti continui per la solidarietà di tutti, governi e singoli, la spontaneità con cui dice che sogna di andare al mare con i suoi figli ma prima la guerra va vinta perché altrimenti i russi torneranno, la visita a Bakhmut, perché il morale è come la luce accesa trecento giorni fa, va sostenuto. Soprattutto se gli attacchi russi continuano indefessi, le sirene fanno da sottofondo al Natale in ogni parte dell’Ucraina, l’albero nella stazione di Kyiv si accende soltanto con l’energia creata pedalando sulla bicicletta collegata alle luci e l’acqua e la corrente mancano per ore e ore. Soprattutto se si va in una città che non è ancora stata liberata, come erano Izyum e Kherson, e che anzi è contesa in modo lento e violentissimo, e si dice: “Da maggio gli occupanti stanno cercando di spezzare la nostra Bakhmut, ma il tempo passa e Bakhmut sta spezzando non soltanto l’esercito russo, ma anche i mercenari russi che vengono a sostituire l’esercito sprecato degli occupanti”. Mosca ha investito ingenti risorse per prendere Bakhmut perché è un accesso strategico alla strada verso Sloviansk e Kramatorsk, le città più importanti del Donbas che sono sotto il controllo ucraino. Ma l’esercito ucraino ha rafforzato le sue difese nell’area circostante, così entrambe le parti hanno subìto molte perdite: questo posto è diventato “il tritacarne”, i civili in città sono pochi e prima ce n’erano 70 mila.

 

 

Zelensky si è presentato dentro al tritacarne, ha parlato di luce, ha dato medaglie, ha incoraggiato i soldati e tutti gli ucraini a non cedere. Non è soltanto un bravissimo comunicatore o un leader più umano e capace rispetto a Putin, ma incarna e proietta il carattere ucraino, quel misto invincibile di coraggio e ironia. Intervistato da Dave Letterman, il presidente ucraino ha anche raccontato una barzelletta, la prima dall’inizio della guerra che dice in pubblico, probabilmente una delle tante con cui ha tenuto accesa la luce. Ci sono due ebrei che si incontrano, a Odessa. Uno chiede all’altro: com’è la situazione, cosa si dice?
E l’altro: mah cosa si dice, si dice che c’è la guerra.
Che guerra?
La guerra tra la Russia e la Nato.
E come va questa guerra?
Be’ i russi hanno perso 70 mila soldati, hanno usato tutti i missili, hanno perso mezzi ed equipaggiamenti. 
E invece la Nato?
Cosa si dice della Nato? Be’ la Nato non è ancora arrivata.
 


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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi