rivoluzioni
L'America si affranca dalla Cina: auto elettriche e interessi. Ecco la nuova via degli affari
Gli Stati Uniti si preparano a dominare una nuova stagione. Ventuno "gigafactory". 391 miliardi da investire. La Battery Belt potrebbe diventare uno strumento di propaganda per i democratici
Sessant’anni fa di questi tempi, John F. Kennedy cominciava a far sbarcare soldati in Vietnam, ponendo le basi per la guerra che avrebbe dilaniato l’America. Tra il 1962 e il 1963, i novecento “osservatori” americani che erano stati inviati nel paese asiatico dall’amministrazione Eisenhower divennero sedicimila militari di stanza nei pressi di Saigon. Sessant’anni dopo, è il Vietnam a invadere gli Stati Uniti. Ma stavolta a sbarcare pacificamente è una flotta di eleganti auto elettriche pronte a solcare le strade americane.
A metà dicembre una nave cargo vietnamita è approdata in California, nei pressi di San Francisco, con un carico di 999 veicoli elettriche. È stato il primo di molti sbarchi programmati da VinFast, una giovane casa di produzione automobilistica che dal Vietnam punta a conquistare gli americani con crossover elettrici non certo economici (design di Pininfarina, prezzo di partenza 57.000 dollari), ma che hanno già ricevuto a livello globale 65 mila ordinazioni, una larga fetta delle quali negli Stati Uniti. VinFast ha in programma l’apertura di un impianto di produzione di batterie da due miliardi di dollari nella North Carolina e punta a quotarsi presto al Nasdaq, l’indice di Borsa dedicato ai titoli tecnologici e innovativi.
È uno dei tanti segnali di una rivoluzione elettrica che sembra davvero essere sul punto di decollare anche nel paese più legato alla tradizione dei motori a scoppio.
Sessant’anni fa, ai tempi di Kennedy, il cuore manifatturiero degli Stati Uniti era la Steel Belt, la cintura dell’acciaio che univa gli stati del nord-est del paese, su fino ai Grandi Laghi, e dava lavoro a milioni di persone nelle acciaierie, nelle miniere di carbone necessarie per alimentarle e nell’industria automobilistica, dominata dalle Big Three di Detroit: Ford, General Motors e Chrysler. Era anche un gigantesco serbatoio di voti manovrati dalle grandi organizzazioni sindacali e normalmente orientati verso i democratici. Ma già negli anni Sessanta l’acciaio e il ferro cominciavano a mostrare la ruggine (rust) che avrebbe trasformato la cintura nella Rust Belt, un’area alle prese con la crisi della grande industria, la migrazione dei lavori verso l’Asia e la globalizzazione. Un declino che ha avuto alti e bassi, ma non si è mai fermato, costringendo gli stati della grande manifattura a un profondo ripensamento che è ancora in corso.
Uno dei segnali più interessanti della trasformazione in atto è l’emergere, rapidissimo, di un’altra cintura, che nell’ultimo anno sembra aver accelerato il ritmo di crescita: è quella che molti osservatori cominciano a chiamare la Battery Belt, un’area del paese che solo in parte coincide con il vecchio distretto dell’acciaio e della ruggine, perché si estende dai Grandi Laghi fin nel cuore del Midwest e giù fino agli stati del sud, quelli della Sun Belt che da sempre fa da contraltare al nord manifatturiero. E qui l’economia si intreccia con la politica, perché lungo la stessa direttrice si stanno spostando anche i voti e le faglie che separano democratici da repubblicani. Ogni intervento a sostegno dell’una o dell’altra Belt va anche letto in chiave elettorale, perché aprire un mega stabilimento in aree di crisi significa far felici potenziali elettori che tra non molto, nel 2024, dovranno decidere se lasciare i democratici alla Casa Bianca o rimandarci i repubblicani.
La parola-chiave dell’inedita corsa a costruire la Battery Belt è “gigafactory”. Fino a qualche anno fa, a utilizzarla era quasi soltanto Elon Musk per descrivere gli investimenti della sua Tesla nella produzione di batterie per auto. Adesso le cose sono cambiate e tutti gli stati sognano di attrarre una qualche gigafactory, cioè una fabbrica che ha la capacità di produrre batterie che complessivamente superano un gigawatt/ora (GWh) di energia. Con un GWh di capacità in teoria si possono produrre in un anno batterie per alimentare tra i 10 e i 20 mila veicoli elettrici.
Dall’inizio del 2021 sono nate o sono state annunciate negli Stati Uniti almeno 21 gigafactory, per un valore complessivo di circa 55 miliardi di dollari, secondo i calcoli fatti da un rapporto della Federal Reserve di Dallas che è diventato un po’ la nuova “bibbia dell’auto elettrica”: da ottobre scorso viene studiato e condiviso a Wall Street, nelle grandi società di consulenza, nei fondi d’investimento e nei centri di comando delle case automobilistiche. L’ultimo impianto in ordine di tempo a essere stato annunciato è un gigantesco campus per la produzione di batterie da 3,5 miliardi di dollari che la società Redwood Materials costruirà in South Carolina, non lontano da Charleston.
Le due Carolinas, del nord e del sud, si stanno trasformando in epicentri della produzione legata alla mobilità elettrica, con varie gigafactory in arrivo compresa quella annunciata dai vietnamiti di VinFast. Ma la mappa della Battery Belt tocca tutti gli stati del sud, dalla Georgia al Texas, per poi proiettarsi nel cuore del Midwest (Missouri, West Virginia) e salire infine di nuovo verso la regione dei Grandi Laghi e verso Detroit. Qui le grandi case automobilistiche, da Ford a Stellantis, sono a loro volta impegnate nella realizzazione di gigafactory per poter tenere il passo con le nuove strategie tutte dominate dalla sigla EV (electric vehicles). General Motors conta di investire 35 miliardi di dollari entro il 2025 nello sviluppo della flotta elettrica, Ford ne ha messi a budget 50 da qui al 2026. Nello stesso tempo, GM punta a vendere un milione di veicoli elettrici entro metà del decennio e Ford addirittura il doppio nello stesso arco di tempo.
Piani industriali giganteschi, che richiedono un altrettanto gigantesca produzione di batterie. Ma ad accelerare negli ultimi anni la realizzazione degli impianti necessari non è stata soltanto la scommessa sulle strategie industriali dei grandi gruppi, quanto una potente iniezione di soldi pubblici.
Già nel 2009, nel pieno della recessione provocata dalla crisi dei mutui subprime, l’amministrazione Obama aveva messo in circolazione i primi 2,2 miliardi di dollari destinati al settore EV, nell’ambito dell’American Recovery and Reinvestment Act. Negli anni di Donald Trump non c’era stato lo stesso entusiasmo per l’auto elettrica, preferendo puntare a stabilizzare e tenere ancora in vita il settore della produzione di fonti fossili, prima tra tutte il carbone. Lo scenario è cambiato con gli interventi legislativi del presidente Joe Biden contro il cambiamento climatico e soprattutto con l’Inflation Reduction Act della scorsa estate, la legge che ha destinato 391 miliardi alla spesa pubblica nel settore dell’energia pulita. Si è aperto un torrente di fondi federali per decine di miliardi di dollari destinati al settore elettrico, in gran parte sotto forma di incentivi che non sono più destinati come in passato all’utente finale, bensì ai produttori.
L’industria dell’automotive e quella delle batterie hanno adesso la possibilità di accedere a prestiti miliardari e sconti fiscali altrettanto consistenti investendo nell’elettrico. Lo scopo è incentivare la mobilità non alimentata da fonti fossili, ma anche fare la guerra in questo ambito – come in molti altri – alla Cina, che ha il dominio in settori strategici come quello delle batterie agli ioni di litio. Il governo americano adesso finanzia con un credito fiscale pari a 35 dollari ogni kilovattora prodotto da una singola cella di batteria realizzata sul territorio statunitense. Un incentivo non da poco, se si pensa per esempio che Ford e SK Innovation potrebbero guadagnare 3 miliardi di sconti sulle tasse con i due impianti gemelli che stanno realizzando in Kentucky, con una capacità di produzione complessiva di 86 gigawatt di energia all’anno.
Un altro 10 per cento di credito fiscale è destinato a chi produce negli Stati Uniti materiali critici per la realizzazione di batterie elettriche per auto. Un bell’incoraggiamento per aziende come Redwood, fondata da J.B. Straubel, un ex top manager di Tesla che ha lasciato il gruppo automobilistico di Musk e si è messo in proprio. L’azienda, oltre a costruire la gigafactory in South Carolina, è impegnata in altri progetti di vasta portata come la realizzazione di uno stabilimento da 3,5 miliardi di dollari in Nevada dove produrre materiali per catodi e anodi, che sono al centro dei processi di funzionamento delle batterie elettriche. Redwood sta anche guidando una nuova industria emergente che acquisirà sempre più peso nei prossimi anni: quella del riciclo delle batterie attraverso il recupero e il riuso di materiali preziosi come il litio, il cobalto e il nickel. In questo caso gli incentivi sono legati anche alla sostenibilità e allo smaltimento di sostanze e dispositivi nocivi.
Il fiume di soldi in buona parte pubblici sta permettendo adesso alle industrie automobilistiche americane di recuperare il ritardo che avevano su Tesla e sta incentivando anche realtà asiatiche a investire ancora di più negli Stati Uniti. VinFast da questo punto di vista è un pesce piccolo, i grandi investimenti li stanno facendo colossi come Hyundai, Toyota o Nissan. La società di Elon Musk, dopo aver aperto la strada e preceduto tutti, sembra ora in affanno. Il titolo Tesla ha perso il 66 per cento del valore in Borsa in un anno in cui Musk ha dedicato tutte le proprie energie all’acquisto e poi al tentativo di rilancio di Twitter.
Dal 2020, con il lancio della Model Y, non c’è stato alcun annuncio di nuovi veicoli da parte di Tesla, che nel 2023 dovrebbe mettere sul mercato il Cybertruck, il pickup di cui ha più volte rinviato la vendita. Ma il traguardo dei 20 milioni di auto elettriche venduti all’anno entro il 2030, una delle celebri promesse di Musk, sembra lontano. In compenso le vendite di Tesla sono cresciute in un anno del 59 per cento in Cina, nel paese contro il quale l’amministrazione Biden sta concentrando tutti i propri sforzi per cercare di frenarne il predominio nel settore della mobilità elettrica.
E qui, come sul tema dei finanziamenti pubblici alle gigafactory, entra in campo la politica. Perché l’auto elettrica negli Stati Uniti è da sempre “di sinistra” e ora anche la produzione di batterie sta diventando un cavallo di battaglia dei democratici. Tesla per qualche tempo era diventato uno status symbol per clienti progressisti, ma le bizze di Musk, soprattutto quelle legate a Twitter, secondo i sondaggi stanno allontanando il brand dai democratici e avvicinandolo di più agli elettori repubblicani (almeno a quelli che hanno cominciato ad abbandonare SUV e pickup a benzina).
Ma i destini di Tesla sono poca cosa rispetto agli investimenti miliardari nelle gigafactory. Qui c’è spazio reale per la creazione di consenso anche politico. La fabbrica di Redwood a Charleston, per esempio, creerà 1.500 posti di lavoro entro la fine del 2023, in tempo per l’avvio delle primarie per la scelta dei candidati alla Casa Bianca. Un tema elettorale ottimo per i democratici, che sanno di dover giocare sull’economia la prossima campagna elettorale e stanno per ufficializzare un nuovo calendario delle primarie che probabilmente prenderà il via a inizio febbraio 2024 proprio dalla South Carolina. Uno stato che ama Biden e che gli ha dato l’impeto per la vittoria nel 2020.
Già nelle recenti elezioni di midterm i sondaggisti hanno registrato spostamenti di voto a favore dei democratici in stati in cui i soldi federali hanno permesso la creazione di nuovi posti di lavoro. È il caso dell’Ohio, nel cuore della Rust Belt, uno degli stati da sempre più importanti nella corsa alla Casa Bianca. I repubblicani lo hanno vinto con molta più fatica del previsto e tra le cause della rimonta democratica ci sono anche l’apertura di nuovi stabilimenti legati al Chips Act, la legge di Biden per incoraggiare la produzione negli Stati Uniti di semiconduttori, un altro dei componenti-chiave per l’industria automobilistica, soprattutto quella elettrica. Honda e LG Energy Solution hanno annunciato l’apertura in Ohio di un loro stabilimento da 4,4 miliardi di dollari che creerà 2.200 nuovi posti di lavoro. Intel, l’azienda americana leader nei microchip, ha a sua volta avviato la realizzazione sempre in Ohio di un mega stabilimento da 20 miliardi di dollari per cercare di combattere la dipendenza degli Stati Uniti – anche in questo caso – dai semiconduttori realizzati in Asia.
Con la sua ramificazione in stati elettorali decisivi come Ohio, Georgia, Nevada o Arizona, la Battery Belt finanziata dall’amministrazione Biden potrebbe quindi diventare un potente strumento di propaganda politica per i democratici. La mobilità elettrica non sembra ancora scaldare i cuori degli elettori americani, che al momento di votare ragionano con il portafogli più che con la passione per la protezione dell’ambiente. Ma se si tratta di creazione di migliaia di posti di lavoro, per di più a discapito della Cina, la faccenda ha tutto un altro peso per l’elettorato.