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Confondere e accusare. La strategia post-Covid della Cina

Giulia Pompili

Pechino ha usato la pandemia per la propaganda. Ora la subisce. Anche se continua il tentativo di perseverare nella disinformazione: Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese, anche ieri ha detto che i paesi che hanno introdotto restrizioni ai viaggi seguono un approccio antiscientifico

In una vignetta di Vitaly Podvitski, fumettista russo, pubblicata a fine settembre dal Global Times, il tabloid in lingua inglese di proprietà del Partito comunista cinese, si vede il presidente americano Joe Biden che sistema alcuni trofei nello studio ovale. Sul primo, quello più grande, si legge: vittoria sul coronavirus. Fuori, ci sono grossi virus verdi che lo guardano e sghignazzano. A maggio il Global Times aveva pubblicato un’altra vignetta, questa volta nata dalla penna della fumettista cinese Liu Rui: c’è lo Zio Sam, con il cilindro a stelle e strisce, che butta via una mascherina dicendo: “Diritti umani!”. Nel quadrato a fianco c’è un cimitero e una lapide dove si legge: bilancio da morti da coronavirus in America: un milione. La didascalia recita: nessun umano rimasto. Per quasi tre anni, la campagna martellante della propaganda cinese ha puntato su questo: l’inefficienza occidentale, le contraddizioni dell’occidente accusato di non saper gestire la pandemia, di non fare rispettare le regole, di non saper gestire le proteste contro le restrizioni. Adesso la situazione si è ribaltata. E così si ribalta anche la propaganda cinese: avete criticato la nostra strategia contro il Covid, e ora che l’abbiamo eliminata introducete di nuovo l’obbligo di tamponi all’ingresso? Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese, anche ieri ha detto che i paesi che hanno introdotto restrizioni ai viaggi seguono un approccio antiscientifico.

 

“L’adeguamento delle misure di controllo del virus è arrivato al momento giusto”, si leggeva ieri su un editoriale del China Daily: “Si vergogni chi cerca di sminuire e calunniare gli sforzi della nazione. Il paese più popoloso del mondo non ha mai smesso di fare tutto il possibile per salvare vite umane. Per questo motivo, ha uno dei tassi di mortalità da Covid più bassi al mondo”. In effetti, sarebbero di più le vittime della politica Zero Covid dei morti dichiarati dal governo ufficialmente uccisi dal virus. 

 

Questa manipolazione dell’informazione – che si manifesta nelle dichiarazioni dei funzionari, nelle pubblicazioni dei media ufficiali, ma anche nell’incredibile mobilitazione di troll e influencer online –  non è nuova nella strategia comunicativa cinese. Si tratta di accusare il nemico e proiettare su di lui quelle che sono le proprie azioni, di usare la tecnica del whataboutism, tentando di spostare l’attenzione su altro. La Cina usa spesso la tattica più classica di tutte, quella del complottismo e delle teorie cospirazioniste (su questo, c’è una lunga tradizione che la unisce all’estrema destra americana) oppure omette informazioni con l’obiettivo di annacquare i suoi reali obiettivi. La gestione dell’informazione pubblica sul Covid non è molto diversa da altre questioni di diplomazia pubblica cinese. Per esempio, Pechino ha sempre negato di aver militarizzato alcune isole che rivendica nel Mar cinese meridionale. Ma l’analisi delle immagini satellitari indica che la Cina sta costruendo nuove isole artificiali per poter rivendicare un’area sempre più ampia, e lo sta facendo grazie allo sforzo militare impiegato in una regione cruciale per il commercio globale. Pechino si è attribuita il ruolo di potenza di pace, e non di guerra, eppure l’ultimo scontro al confine tra India e Cina, il 9 dicembre scorso, quando 300 soldati dell’esercito cinese hanno tentato di attraversare la Linea McMahon, dimostra il contrario. La propaganda cinese accusa continuamente l’America e gli alleati della Nato di avere in qualche modo provocato, con le esercitazioni militari, la reazioni di paesi che si sentivano “legittimamente” preoccupati dai “giochi di guerra” occidentali: eppure Cina e Russia da anni ormai conducono esercitazioni belliche più che minacciose, e da un anno a questa parte anche particolarmente provocatorie in aree delicate come quelle nel Pacifico, attorno al Giappone. 
L’occidente ha trascorso gli ultimi tre anni a prepararsi a gestire la pandemia da coronavirus: cercando un equilibrio tra doveri collettivi e libertà individuali, tra globalizzazione e sicurezza. Anche per questo il problema attuale, cioè il disastro della gestione cinese, non è più legato soltanto alla sicurezza sanitaria internazionale, ma costringe l’occidente ad affrontare la Cina come un problema diverso, più grande e articolato, che non riguarda soltanto la pandemia, la trasparenza dei dati e la mobilità delle persone. La Cina pone all’occidente un problema politico.  Che però viene affrontato spesso in modo scomposto, poco organico. La decisione del governo italiano guidato da Giorgia Meloni di introdurre test all’ingresso per chi arriva dalla Cina (come Giappone, India e America) ha poco a che fare con il rapporto tra l’Italia e Pechino ma ha piuttosto una logica di politica interna, esplicitata da un tweet del ministro delle Infrastrutture e leader della Lega, Matteo Salvini: “L’Italia non può essere l’unico paese a fare i controlli anti Covid negli aeroporti a chi arriva dalla Cina. Sono in contatto con la commissaria europea ai Trasporti, Adina Valean. […] Sarebbe un errore grave, già commesso da 5Stelle e Pd”. Ieri però la Commissione europea, riunita d’emergenza per discutere della possibile recrudescenza del Covid, ha deciso che i tamponi all’ingresso non servono: “Da un punto di vista scientifico, in questa fase non c’è motivo di ripristinare i controlli alle frontiere”, ha fatto sapere Brigitte Autran, responsabile del comitato francese Covars, che valuta i rischi per la Salute pubblica. Le varianti rilevate dai controlli in Italia a visitatori dalla Cina hanno infatti confermato che le varianti del virus in circolazione nel paese sono le stesse che circolano in Europa, e contro le quali lo scudo vaccinale è sufficiente. 

 

Al contrario, la leadership di Pechino è passata nel giro di pochi giorni da una strategia repressiva e autoritaria alla riapertura incontrollata, inaspettata, fatta di carenze e inefficienze ma soprattutto di contraddizioni, che non sono sfuggite nemmeno ai cittadini cinesi e ai residenti. Uno slogan che circola da giorni su Weibo, il social network più utilizzato in Cina, recita: not grateful, not forgotten, not forgiven, non ringraziamo, non dimentichiamo, non perdoniamo. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.