Il premier giapponese Kishida in Italia e la vera sfida del dopo Putin
Kishida arriva in Europa e porta un messaggio chiaro: dopo Putin c'è Xi Jinping. Ma un po’ di ambiguità viene da Roma. Oggi l'incontro con Meloni
Quando lunedì il primo ministro giapponese Fumio Kishida atterrerà a Parigi, prima tappa del suo tour diplomatico tra i paesi del G7, porterà un messaggio chiaro ai suoi alleati, soprattutto a quelli europei: dopo la Russia c’è la Cina. Dopo Putin c’è Xi Jinping. E c’è un motivo: il Giappone, nel gruppo delle sette grandi economie del mondo, è l’unico rappresentante dell’area dell’Indo-Pacifico, ed è l’unico ad affrontare le provocazioni militari e spesso anche l’ostilità diplomatica di Russia e Cina, contemporaneamente. Tokyo ha la presidenza di turno del G7, e Kishida dopo l’incontro a Parigi con Macron volerà a Roma, dove martedì è prevista una colazione di lavoro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Sarà il primo vero bilaterale tra Kishida e Meloni, dopo quello saltato al G20 di Bali a metà novembre (che aveva creato un po’ di malumori a Tokyo).
E sarà la prima occasione per parlare di un accordo che fino a oggi il governo italiano ha tenuto un po’ in ombra, quello per lo sviluppo del sistema Tempest, il caccia di sesta generazione che è soprattutto un patto di Difesa tra Regno Unito, Italia e Giappone. Al di là dei vantaggi per le aziende private coinvolte, tra cui l’italiana Leonardo, il Tempest non è soltanto una relazione di business. E’ un partenariato di Difesa e sicurezza, che aumenta la capacità di deterrenza dei tre paesi anche contro la crescente assertività cinese nell’Indo-Pacifico. Eppure, finora, il governo italiano sembra averlo interpretato – ma soprattutto pubblicizzato: tra i membri dell’esecutivo è stato menzionato soltanto una volta dal ministro della Difesa Guido Crosetto durante un’intervista a Reuters – per i suoi possibili “benefici economici e industriali”.
Kishida non si fermerà nemmeno una notte a Roma, e volerà già martedì a Londra, dove secondo il quotidiano Yomiuri firmerà, con l’omologo britannico Rishi Sunak, un accordo che autorizzerà le attività delle Forze di autodifesa giapponesi del Regno Unito e del personale militare britannico in Giappone. Dopo Londra, Kishida volerà in Canada e poi in America. Ma Tokyo non ha bisogno di convincere Washington, Londra o il Canada di Justin Trudeau della minaccia cinese e della necessità urgente di esprimere, politicamente ma anche militarmente, unità e forza nell’Indo-Pacifico. Dopo l’inizio della guerra della Russia contro l’Ucraina, gli equilibri sono cambiati, e c’è ormai un certo consenso anche tra i paesi europei del G7, come Germania e Francia, che superata la crisi ucraina bisognerà fare i conti con un ordine del mondo sconvolto, dove le autocrazie sono sempre più aggressive. Non a caso l’altro ieri il consigliere diplomatico del presidente Macron, Emmanuel Bonne, ha incontrato il primo ministro indiano Narendra Modi a Delhi, per discutere di una possibile visita del presidente in India. La Francia è l’unico paese europeo ad avere una strategia sull’Indo-Pacifico chiara e concreta, ma anche a Berlino il dibattito sulla trasformazione delle relazioni con Pechino è prioritario, soprattutto dopo la visita in Cina del cancelliere Olaf Scholz. Lunedì Johannes Vogel e Marie-Agnes Strack-Zimmermann, membri del Bundestag del Partito liberale democratico tedesco, guideranno una delegazione di politici e parlamentari a Taiwan, perché “le democrazie di mercato hanno bisogno di una strategia comune”, ha detto Vogel a Merkur, e “dopo Putin verrà Xi”, e con lui la destabilizzazione definitiva dell’Indo-Pacifico.
Per gli alleati asiatici, l’unico governo che sembra ancora concentrato sul localismo europeo appare quello italiano, che ha all’improvviso moderato i toni contro Pechino: anche nel caso dell’introduzione dei tamponi per chi arriva dalla Cina in questa nuova ondata di Covid, misura a cui poi si sono adeguati anche gli altri paesi europei, i rappresentanti del governo italiano sono stati molto cauti nell’indirizzare responsabilità e nel replicare alle accuse “antiscientifiche” di Pechino. Ed è come se i danni provocati dalla Via della seta alla politica estera italiana non finissero mai.