Le proteste a Colonia, il 5 gennaio 2016 (Wolfgang Rattay, Reuters/Contrasto)

Il caso tedesco

Perdersi nelle querelle lessicali sui migranti non aiuta l'integrazione

Daniel Mosseri

Parla Ahmad Mansour, psicologo e studioso dell’islam. Nuove violenze si sono registrate in varie città della Germania durante il Capodanno appena passato: è il fallimento delle politiche sull'immigrazione

Berlino. C’era una volta il Capodanno 2016 in piazza a Colonia. Le molestie sessuali ai danni di centinaia di donne (con episodi analoghi ripetutisi in altre città tedesche ed europee), le reticenze della polizia della città renana nell’indicare i gruppi sospettati (in gran parte giovani nordafricani) e tennero banco per mesi in una Germania che non si era ancora ripresa dall’ondata di rifugiati mediorientali (oltre un milione) arrivati dalla via balcanica l’estate precedente. Allora si parlò di taharrush gamea, importando il termine arabo che indica la “molestia collettiva”. Oggi nessun termine è stato (ancora) importato ma nuove violenze si sono registrate a Berlino, a Francoforte, ad Amburgo e in Baviera durante il Capodanno appena passato: non contro le donne questa volta ma contro la polizia e, ecco la novità del 2023, contro i pompieri. Contro coloro cioè che di solito passano San Silvestro a salvare i maniaci dei fuochi artificiali da se stessi.

 

I tedeschi sono fanatici dei botti e dopo due anni di stop ai petardi causa distanziamento sociale, a San Silvestro tutti hanno dato il peggio di sé. Ma questa volta ad avere paura sono stati i pompieri. Teatro degli attacchi contro i camion rossi dei Feuerwehr sono stati i quartieri ad alta densità di immigrati. A Berlino, per esempio, le violenze si sono concentrate a Wedding e a Neukölln, distretti turcofoni e arabofoni della capitale. Del fenomeno che ha “sbalordito” la ministra degli Interni Nancy Faeser e scatenato le critiche della Cdu – “è il fallimento della politica di integrazione”, ha osservato il numero due dei cristiano democratici Jens Spahn – ha parlato con la Welt Ahmad Mansour, psicologo tedesco di origine arabo-israeliana, studioso dell’islam politico e di integrazione.

 

Agli smemorati, Mansour ha ricordato che non è la prima volta che Capodanno si trasforma da festa di strada a una notte di guerriglia urbana e che “qua non si tratta di vietare i botti ma capire che dei gruppi usano questo evento per attaccare le autorità”. E di questi gruppi ha poi fatto il nome: “Profughi e persone con background migratorio”, ha affermato. “Ovviamente non tutti, ma il problema dell’integrazione esiste”. Secondo lo studioso di estremismo alla radice della violenza ci sono strutture di patriarcato e la “dis-integrazione” degli immigrati: due questioni che Mansour suggerisce di risolvere con il dialogo.

 

Ma attenzione, aggiunge memore di una conferenza stato-islam alla quale dovette partecipare scortato dalla polizia che lo proteggesse dagli altri convitati, “dobbiamo essere fermi nel mettere in chiaro che certi atteggiamenti sono inaccettabili”. Il dialogo deve servire a “comunicare i valori” della società in cui l’immigrato vive, a volte disprezzandola. Quindi ha messo il dito nella piaga spiegando che ci sono persone “che cercano protezione presso di noi” ma a volte “noi dobbiamo essere protetti dalla loro violenza”. E’ questo il nodo del problema, o, come lo chiama Mansour, “del tabù”. 

 

Allo psicologo il Foglio ha chiesto cosa ne pensa del balletto di nomi, ora derisori ora politicamente corretti quali Gastarbeiter, Nafris (nordafricani) fino all’ultimo Westasiatisch (asiatici occidentali) con cui la polizia cerca di identificare gli immigrati in arrivo dal Marocco o dall’Algeria, dalla Siria o dall’Afghanistan. “Ci perdiamo nella terminologia ma non abbiamo un dibattito onesto” risponde, osservando che “la leadership politica sottopone la polizia a enormi pressioni, ostacolando così più volte la sua missione più importante”, e cioè il mantenimento della sicurezza. La ricetta di fermezza sui comportamenti e dialogo sui valori invocata da Mansour punta dunque a vincere la sfida dell’integrazione. All’esperto abbiamo anche chiesto se in Europa un modello di successo esiste già: “No”, risponde onesto. “Non sono a conoscenza di un modello veramente valido. Ma credo che fra i cattivi concetti di integrazione che abbiamo in Europa quello sviluppato in Danimarca sia di gran lunga il migliore”.

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