Foto di Cecilia Fabiano, via LaPresse 

racconto di un'esistenza

Dalla Val Camonica a Odessa, storia di un operatore della Croce Rossa

Adriano Sofri

Dall'incontro con un missionario diocesano in Mozabico, a Msf, a Emergency, in Sierra Leone e ancora tante altre mete nel mondo... Un eroe felice e sconosciuto che ha adeguato la vita ai disastri dell'umanità

Fabrizio Minini ha 45 anni, è in forma, gira per Odessa su una bicicletta pieghevole. Non ha freddo, è nato a Breno, nel cuore della Val Camonica. Oggi torna in Italia, conclusa la sua annosa missione ucraina per la Croce Rossa Internazionale. Avrà un mese, e riprenderà il suo servizio a Kandahar, Afghanistan. 

 

Padre operaio alla Dalmine di Costa Volpino, madre ispiratrice di sogni. Alla scuola elementare va in bicicletta, perché il primo giorno ha litigato col guidatore del bus, e non è tipo da passarci sopra. La salita del ritorno è ripida: allenamento. I suoi gli fanno amare i viaggi. Così decide per il liceo linguistico a Boario Terme. Regole rigide, si invidiano gli scioperi studenteschi altrui. Docenti bravi, le lingue: inglese, francese e, retaggio turistico, tedesco. E l’oratorio, lui è schiappa al calcio, buono per il trekking: un poster di Messner sul letto, l’Adamello di fronte.

 

Legatissimo agli amici della valle – “ci sentiamo quasi tutti i giorni, whatsapp”. Con loro, la passione per Vespe e Lambrette. Conosce la cooperazione attraverso la Caritas locale, c’è un prete in gamba, si accolgono rifugiati dalla Bosnia, si vive con loro. Appena maggiorenne e patentato, si mette alla guida dei furgoni, a Mostar, poi a Sarajevo, nel ’95, ultimo anno dell’assedio. È affascinato dai Balcani, dal mito dei luoghi da cui passa la storia e in cui si diventa testimoni, “come oggi qui a Odessa”. Ci tornerà in un viaggio di un anno, fino al Montenegro e all’Albania.

 

Intanto si è iscritto all’Agraria forestale inaugurata in Valle, ma non gli è piaciuta. Se non studi, lavori. Dunque lavora, muratore, poi in acciaieria, il famoso tondino, poi falegname, in un mobilificio artigianale. Per dieci anni, e intanto si paga i viaggi. In Valle è la volta dell’accoglienza agli orfani ucraini, i bambini di Chernobyl vengono d’estate, respirano, mangiano… Prima 10, poi 50, poi 250, distribuiti fra i comuni. Vengono dall’orfanotrofio di Gorodnya, fatiscente, che ne contiene 270. Per lo più non sono orfani, sono figli di genitori cui è stata tolta la patria potestà, alcool, droga, galera – ogni tanto i genitori ricompaiono. I più fortunati sono i veri orfani. 

 

Si decide di dedicare la vacanza estiva a restaurare l’orfanotrofio, nell’oblast’ di Chernihiv. Ma in quell’unico mese non si trovano ditte locali. Faranno loro, con gli ex-alpini soprattutto: sono un’istituzione nella valle, per la protezione civile, il soccorso. Aderiscono in tanti che non si sa dove metterli, lavorano più sodo che in tempo feriale, alcuni verranno per 15 anni di fila. 

 

Nelle estati del 2003-4 Fabrizio arriva in Mozambico, da un missionario diocesano. L’impegno più drammatico riguarda i bambini di strada. È scoppiato lo scandalo sul traffico di organi, l’hanno svelato una suora brasiliana e un giornalista di Famiglia Cristiana, lei sarà uccisa. Il Sudafrica dei trapianti è vicino, alla portata degli elicotteri che trasportano gli organi.

 

Nel 2007 Fabrizio ha 30 anni, decide di guardarsi attorno e cambiare. La Valle che si è presa a cuore l’Ucraina e gli orfani ha un’associazione, “Domani-Zavtra”, che vuol dire Domani-domani (in russo o ucraino), hanno comprato una casa. Si offre di trasferircisi per un anno, di completare la casa, e ci investe la liquidazione. È all’incrocio fra Ucraina Russia e Bielorussia, ci si parla una lingua composita, mista delle tre. (A febbraio scorso di qua c’era solo qualche inerme doganiere ucraino che ha ricevuto l’ordine di resistere. Si disponeva a obbedire, quando sono arrivati cannoni e tank russi, e si salvi chi può). 

 

Finita la missione ucraina, chiacchiera con un operaio bresciano in partenza per Dakar, Senegal, alla costruzione dell’Hotel Radisson. Perché non vieni? Sai fare il falegname, parli il francese. Detto fatto: un anno a Dakar, conosce l’Africa più bella, e fa anche un’esperienza di cura della malaria. Una conversazione tira l’altra, e la prossima è con un salesiano, medico, anche lui della Valle: c’è un dispensario in un paesino sperduto del futuro Sud Sudan, si vorrebbe farne un ospedale.

 

Per la prima volta gli avrebbero rimborsato le spese. Là si sparava, contro il governo del nord, musulmano, fra i clan, per le mucche, che vi fanno da moneta. Uomini come i Dinka, nerissimi, altissimi, scarnificati fin dall’adolescenza, iniziati al dolore – guai se un bambino si mette a piangere in ospedale – la dentatura inferiore portata via d’un colpo: macchine da guerra. Ma avevano un gran rispetto per la missione. C’è la radio, l’Unhcr distribuisce radio azzurre a manovella, utili per le elezioni; copre centinaia di km, arriva nelle capanne sperdute, trasmette un programma sulla salute.

 

Fabrizio collabora con una giovane kenyana di Médecins sans frontières. La mortalità di partorienti e neonati è altissima, gli ombelichi tagliati con coltelli da barbiere o canne di bambù affilate: per 3 dollari si poteva comprare il kit per un parto decente, sapone, bende, clamps per il cordone… “Ne comprammo tremila in Kenya, la ragazza li portava a madri e ostetriche tradizionali. Qualche vita l’abbiamo salvata”. Sono i suoi due anni a cavallo dell’indipendenza da Khartoum, 2011. 

 

A Milano fa un colloquio con Emergency, 15 aspiranti e 1 posto di logista, lo prendono: un anno in Sierra Leone, a Freetown. C’è l’unico ospedale chirurgico, due sale operatorie attive senza sosta, 100 posti letto – anni dopo sarà un centro per l’ebola. È il suo primo impiego regolare. In quello che è diventato il suo lavoro il passaparola ha un gran peso. Sono ora un cardiochirurgo e degli infermieri pediatrici torinesi di una piccola ong, ma legata al San Raffaele, a proporgli di curare l’insediamento in Somaliland, nella capitale Hargheisa.

 

Nei primi mesi c’è da costruire la sede, e c’è solo lui, poi arriva una quindicina di sanitari. Ci sono fondi del Mae, si ha a che fare con il governo di quel paese di clan. Può succedere di dover rimpiazzare una radiologa, e il governo propone una sua commessa di negozio. Fabrizio è il capo missione, capita che debba minacciare di chiudere – è l’unico ospedale che offra cure gratuite. Incombe lo spettro Shabab, in città si spara, ma anche qui l’ospedale è risparmiato. Succede anche un colpo di fortuna – una disgrazia, all’origine. Un bambino viene investito da un cammello, è domenica, l’ospedale è largamente sguarnito, ma si riesce a venirne a capo. Il padre del bambino è il capo dell’antiterrorismo, da allora l’ospedale ha un angelo custode.

 

Prossima tappa col Gruppo di volontariato civile bolognese: in Libano, per aprire la missione a Damasco. La Siria brucia da tempo, e gli nega il visto, aspetta mesi a Beirut, poi si sposta in cima alla Valle della Bekaa. Conosce la dolce vita della capitale e la roccaforte del Partito di Dio, Hezbollah. Il Libano non riconosce lo status di rifugiati, ma di fatto ne ospita, accampati dappertutto, quasi due milioni su una popolazione di nemmeno 7: un record. 

 

La prossima scrittura segna un salto di qualità manageriale e previdenziale. È la maggiore ong danese, il Danish refugee council, che lo destina all’Iraq. In realtà, con qualche passaggio a Bagdad, nel Kurdistan iracheno, soprattutto a Dohuk. Durerà tre anni, nella logistica. Ha un referente 35enne, londinese, uno che risolve i problemi, e ne ha i mezzi. Gli Internazionali si distinguono anche – è uno dei criteri principali – secondo che vivano tribalmente fra loro, o che frequentino e diventino amici delle persone locali. Coi curdi di Amadiya, di Erbil, di Suleimanya, e con quelli venuti dal Rojava o da Damasco, Fabrizio si sente a casa.   

 

Finisce il 2017. L’11 gennaio è a Ginevra per un colloquio con la Croce Rossa. Preso e destinato al posto ufficialmente “peggiore” – “quello che mi aspettavo”: a Giuba, ancora nel Sud Sudan. La Croce Rossa dispone di aerei da trasporto, di Hercules per i lanci del materiale: Fabrizio è responsabile del magazzino per il carico degli aerei. Dopo 6 mesi gli assegnano la logistica per l’intero territorio – tre volte l’Italia. In tutto il Sud Sudan ci sarà una ventina di km di strada asfaltata, il resto è piatto, savana, fango, a parte il Nilo. Quando piove gli aerei non atterrano sulla terra battuta, ce la fanno solo gli elicotteri. Sta lì per un altro anno e mezzo.

 

Negli incarichi internazionali quando il rischio cresce, secondo una graduatoria convenzionale, cresce il numero di giorni aggiunti alle ferie. Cinque, per esempio, più il volo. È qui che Fabrizio vola in Portogallo.

 

È tipico passare indenni attraverso i luoghi più sventurati, e scivolare durante una vacanza. A Coimbra mette un piede in fallo attraversando la diga sul Mondego e si frattura dalla testa ai piedi. In coma per dieci giorni, altri venti in terapia intensiva, ben curato, maltrattato, da quando torna vigile, da certe suore, “tremende!”. Una sua amica neuropsichiatra muove cielo e terra per fargli dare i farmaci senza i quali sta andando in crisi di astinenza. Finalmente un aereo ambulanza lo trasporta a Brescia, e resta in terapia intensiva altri venti giorni.

 

Il neurochirurgo scruta incredulo radiografie e risonanze, poi scuote la testa e sentenzia: “Ossa camune!”. Gli mettono un busto addosso, ed è di nuovo in Sud Sudan. Altri due anni, fino al 2019. Entro un anno trova il tempo per laurearsi, con una tesi lungimirante: “L’impiego dei droni per uccisioni mirate e la sua controversa legittimità internazionale”. L’ho letta col fiato sospeso, e ho respirato di sollievo alle ultime due righe: “Infine, dedico questa tesi a me stesso, ai miei sacrifici e alla mia testa dura che mi hanno permesso di arrivare fin qui”.

 

Fin lì, dunque. Poi la Cri gli propone l’Ucraina, e arriva il Covid, e fino all’aprile ’21 si muove tra gli intervalli di 16 quarantene. È destinato a Luhansk da aprile ’20 a febbraio ’21, a Donetsk fino a settembre, poi tre mesi a Kyiv. Si occupa prima delle Delegazioni di Severodonetsk e Mariupol. A dicembre ’21, fine missione, dopo 15 anni in giro per il mondo disgraziato, ha in animo di prendere un anno sabbatico. “Nessuno si aspettava la guerra – a parte la Cia e gli inglesi – nella Croce Rossa nessuno. Dal 20 febbraio viaggiavo nel Regno Unito, il 24, sul traghetto, sento le notizie. Chiamo Ginevra e una settimana dopo sono in Moldavia, al confine di Palanca, a curare gli aiuti alle famiglie moldave che accoglievano meravigliosamente i rifugiati. Un paese che, tolti gli emigrati, ha meno di 2 milioni di abitanti, e ospitava più di 100 mila persone. Gente che senza aspettare le direttive di nessuno veniva con le proprie auto a Palanca per caricare i fuggitivi – nella prima ondata fra 300 e 350 mila persone. E animali. Dal 1° aprile sono a Odessa, logista per la Cri, in tempo per il bombardamento dei depositi del gasolio – e sono ancora qui”. 

 

Stai per andartene, però, lontano. Com’è stata la tua Ucraina? Molto diversa, dice. La prima, Luhansk, molto sovietica. C’era una signora, la Russia in persona, che non nascondeva la sua animosità. Eravamo esclusi dalle attività in cui si ha a che fare con la gente. Ci lasciavano quasi solo l’acqua, la cosiddetta sanitation. Tuttavia abbiamo distribuito migliaia di tonnellate di carbone, essenziale. Non avevamo personale medico, a differenza della Cr nazionale, ma una parte forense, la più osteggiata naturalmente. Arrivarono a esigere il riconoscimento della delegazione del Luhansk come Croce Rossa nazionale: avevamo un bel dire che non è la Croce Rossa a riconoscere i nuovi stati. 

 

Da lì non c’erano accessi stradali per la parte ucraina: 2 check point minati, due ponti dai pilastri minati. Un ponte-passerella, da e per Severodonetsk, che si poteva attraversare solo a piedi, così i carichi si portavano a spalla, coi 35 gradi d’estate o i meno 25 d’inverno. Anche tra Luhansk e Donetsk, le parti “russe”, c’era un’evidente rivalità. Il Donetsk aveva un’aria meno tetra, e a Mariupol, nonostante l’inquinamento – la Taranto d’Ucraina, ma molto di più – trascorsi una settimana a giugno ’21, in spiaggia. A Donetsk, già Stalino, stetti da marzo a ottobre. Il 9 maggio vidi la sfilata della Vittoria, la gente col ritratto del nonno, fin davanti a Lenin. 

 

A Odessa le bombe sono distanti; ma da qui si va a Mykolaiv, a Kherson, a Zaporizhia. Abbiamo fatto innumerevoli convogli di acqua e materiali di riparazione a Mykolaiv. Dove non avevamo l’accesso, mandavamo gli aiuti attraverso la Croce Rossa nazionale ucraina. Contano soprattutto sui volontari, non si sono ritirati anche quando erano più esposti al tiro, più vessati dagli occupanti: arrestati, interrogati, maltrattati, come a Kherson. Poi a Kherson, dopo la ritirata, una volontaria è stata uccisa da un missile russo davanti alla sede della Cr ucraina. 

 

Così dunque, per chi fosse interessato, si può diventare un Internazionale. Adeguare la propria vita ai disastri del mondo e fare del proprio meglio, oppure, nel caso peggiore, abituarsi al meno peggio. Arrivederci a Kandahar.

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