Le trappole che ci impediscono di comprendere il tentativo di genocidio in Ucraina
Ridiscutere l'unicità della Shoah, perché la memoria sia un monito contro tutte le "forze della notte"
Liliana Segre ha posto la questione fondamentale della memoria con queste parole: “Sono una delle ultimissime testimoni al mondo e con pessimismo e realismo dico che la Shoah sarà trattata in un rigo nei libri di storia, poi non ci sarà più neanche quello”. Non si ricorderà dunque tra qualche tempo la Shoah. Non si parlerà più di quanto è successo agli ebrei. E’ lo stesso problema del negazionismo di ritorno che sentono gli armeni, ma anche i cambogiani e i rwuandesi. Il pensiero di Liliana Segre mi ricorda le angosce di Levi dopo la sua liberazione dal campo quando sognava che al suo ritorno nessuno avrebbe creduto ai suoi racconti.
Oggi c’è un incubo diverso: con la scomparsa dei testimoni si creerà un nuovo tipo di indifferenza e di rimozione. Come risolvere questo problema?
Sono convinto che ci troviamo a una svolta nel discorso della memoria.
La memoria degli ebrei come degli armeni e di altri popoli potrà durare nel tempo se saremo capaci di trasformarla in un punto di riferimento morale per la prevenzione di ogni male estremo. E’ stata questa la grande intuizione dell’ebreo polacco Raphael Lemkin, quasi sconosciuto in Italia, che nel 1948 riuscì a fare approvare dalle Nazioni Unite la Convenzione per la prevenzione e la repressione dei genocidi. Il ricordo delle vittime e delle loro sofferenze si sarebbe perpetuato se l’umanità si fosse presa l’impegno morale di impedire nuovi genocidi. Fu questo l’impegno personale del giurista ebreo con le vittime polacche e con la sua famiglia sterminata ad Auschwitz.
Bisogna allora capire che cosa non ha funzionato. Tutto ruota attorno al discorso dell’unicità della Shoah che con il passare del tempo da una legittima rivendicazione di un riconoscimento internazionale del genocidio ebraico è diventato una vera e propria trappola per ebrei e non ebrei.
Le trappole per gli ebrei
Perché per gli ebrei? Raccontare la Shoah e la sua singolarità, come qualche cosa di totalmente diverso dagli altri genocidi, come del resto l’antisemitismo dalle altre forme di odio, o persino i giusti della Shoah come una manifestazione di resistenza morale degli esseri umani non paragonabile con altri contesti, con il tempo rischia di ghettizzare gli ebrei dal resto dell’umanità e di creare, nonostante tutte le migliori intenzioni, quella separatezza perenne a cui mirano in ogni tempo gli antisemiti. Il primo anelito dei sopravvissuti della Shoah è stato quello di affermare sulla scena pubblica la loro eguaglianza con gli altri uomini e di affermare che il riconoscimento del loro dramma dovesse servire per il futuro a un miglioramento di tutta la condizione umana.
Oggi invece si rischia pericolosamente di presentare gli ebrei come un mondo a parte, facendo così perdere le possibilità di una vera empatia, senza la quale il dramma ebraico non può venire compreso. Viene così meno la possibilità di una alleanza tra gli ebrei e le altre minoranze perseguitate nella storia. Si riduce la stessa forza della battaglia contro l’antisemitismo. Venendo a mancare l’“esemplarità” della persecuzione ebraica essa non si ricongiunge più alle altre persecuzioni e non si dà modo di ragionare sui meccanismi universali che possono portare a nuovi genocidi.
Se uno studente in una classe nel Giorno della memoria non capisce che quanto accaduto a un ebreo potrebbe capitare un giorno anche a lui in qualsiasi parte del mondo, non sentirà più il bisogno di diventare parte di una catena della memoria e non si porrà domande sul suo futuro. La memoria diventerà così un obbligo fastidioso e non più un impegno morale. Di conseguenza, come spesso accade nelle scuole, scatterà un meccanismo inconscio di rifiuto.
La trappola più pericolosa per un ebreo, ma potrebbe valere anche per un armeno, un tutsi, o un cambogiano, è quando l’anelito al “mai più” che si ripete retoricamente in tutti i memoriali, diventa anelito soltanto per sé e per la propria gente. Come si può creare empatia quando si dice ripetutamente che il male non si deve riproporre soltanto per gli ebrei e non si dice invece che non dovrebbe colpire qualsiasi essere umano?
Il professore Yehuda Elkana ha scritto che dalla Shoah sono nati due popoli. Una maggioranza che dice: “Questo non succederà più a noi”. Costoro monitorano costantemente l’antisemitismo nel mondo e le minacce nei confronti dello Stato ebraico e sembrano indifferenti agli altri e rimangono chiusi in loro stessi. C’è invece una minoranza che dice: “Questo non succederà mai più”. Costoro ritengono che la prevenzione dell’odio e dei genocidi debba riguardare tutta l’umanità, non solo perché il male non colpisce soltanto gli ebrei, ma perché gli ebrei fanno parte di tutta l’umanità.
E’ il secondo popolo che impedisce agli ebrei di cadere in una trappola che li isola dagli altri, poiché loro stessi si sentono parte del tutto e quanto accade agli altri li ferisce.
Le trappole per i non ebrei
Ma la trappola riguarda anche i non ebrei. La memoria tutta concentrata sull’unicità della Shoah negli ultimi anni ha spesso impedito di indagare e di ragionare sugli altri genocidi del Novecento. Se infatti viene indicato un male unico, non in rapporto agli altri mali, e non si stimola una comparazione con quanto è accaduto prima e con quello che si presenta oggi, viene a mancare una riflessione sui meccanismi dell’odio che nel nostro tempo possono portare a nuovi genocidi e crimini contro l’umanità.
Così per esempio la società non è stata attrezzata a comprendere il legame tra la Shoah e il genocidio armeno, là dove un genocidio impunito e la mancanza di una legge internazionale di prevenzione di un crimine contro l’umanità negli anni Trenta ha permesso a Hitler di annientare gli ebrei nel mondo. E oggi il conflitto nel Karabakh tra armeni ed azeri è solamente considerato uno scontro tra due stati e non una conseguenza di una ferita aperta, frutto di una mancata conciliazione tra armeni e turchi, come è avvenuto in Germania con il riconoscimento della colpa da parte della nazione tedesca.
Di maggiore attualità è la mancanza di comparazione tra il nazismo e il totalitarismo sovietico, che come osservò François Furet, nel suo testo più famoso “Il passato di una illusione” (Mondadori, 1995) rimane un limite pesante a causa di un pregiudizio positivo, che consiste nel pensare che l’esperimento sovietico che portò ai gulag e ai milioni di morti fosse stato fatto a fin di bene e non fosse invece una modalità politica di distruzione della pluralità umana.
Così sono molti in questi giorni, abbagliati da un’illusione pacifista, coloro che non hanno compreso la dinamica che ha portato all’invasione russa dell’Ucraina, come se si trattasse solo di risolvere un conflitto deprecabile tra due potenze militari. Non solo non si è indagato l’Holodomor, la carestia per fame di Stalin, sotto la categoria di genocidio che ha colpito gli ucraini, come osservò Raphael Lemkin, a causa della loro resistenza alla dominazione sovietica, ma non si è compreso che quanto sta accadendo oggi è un nuovo tentativo di genocidio culturale di una nazione da parte della Russia di Putin.
Lo ha spiegato bene lo studioso americano dei genocidi Timothy Snyder che per primo ha osservato che in questo conflitto si è manifestata l’intenzionalità di negare l’identità di una nazione considerata non degna di una vita autonoma, perché parte della Russia. Una delle caratteristiche che possono portare a un tentativo di genocidio, come affermato nella Convenzione dell’Onu sul genocidio del 1948, è la prova di intenzione.
E lo stesso Putin lo ha confessato apertamente. “Affermare che non esiste una nazione o uno stato significa rivendicare il diritto di distruggerla. ‘Denazificazione’ e ‘smilitarizzazione’, i due obiettivi di guerra che Putin ha annunciato il 24 febbraio, il giorno in cui è iniziata la sua invasione, non significavano altro che questo”. ‘Denazificazione’ significa: eliminazione delle persone che non capiscono che l’Ucraina è parte di una Russia più grande… Ma sotto c’è la politica: ‘denazificazione’ per Putin significa solo la licenza di uccidere o di deportare. Poiché il termine ‘nazista’ non si riferisce a nessuno in particolare, è una giustificazione per una guerra e una pulizia senza fine”.
E quando si vuole negare il diritto all’esistenza di una nazione libera si usano poi tutti i mezzi per annientarla. E’ questo il motivo di una aggressione mirata alla distruzione della resistenza della società civile. Non avrebbero dunque diritto di esistere gli ucraini che vogliono affermare la loro identità. Così da un genocidio culturale possono nascere le peggiori atrocità di massa. Ecco perché i russi bombardano in modo sistematico le centrali, le fonti di approvvigionamento, gli ospedali, le infrastrutture civili. Non è una guerra di un esercito contro un altro esercito, ma un tentativo di distruzione di una diversità umana.
La trappola del male unico
La trappola dell’unicità della Shoah, intesa come se fosse il Bing Bang irripetibile che ha dato origine all’universo, ha poi altre conseguenze. Impedisce di comprendere che non esiste una male unico nella storia umana: il male si può ripetere, se non nella sua totalità e nella sua forma estrema, in tanti aspetti parziali che gli assomigliano. “Se dicessi che è stato unico – osserva Yehuda Bauer – cioè che ne è accaduto uno solo nella storia, potremmo dimenticarlo, perché non avrebbe più importanza per i vivi: è successo una volta e non verrà ripetuto. Anche ‘unicità’ implica che sia intervenuto qualche fatto extrastorico, qualche Dio, o qualche Satana. Ma il genocidio degli ebrei fu il prodotto dell’azione umana e quelle azioni furono prodotte da motivazioni umane. Nessun Dio o Satana era coinvolto. Pertanto l’Olocausto è stato senza precedenti, non unico. Il che significa che era, o può essere un precedente e che, di conseguenza, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché non diventi un precedente, ma sia un monito. Questo è il collegamento principale tra affrontare l’Olocausto e affrontare il genocidio”.
La memoria della Shoah ha un senso per farci comprendere il male estremo a cui può arrivare l’essere umano. Ci fa comprendere come le “forze della notte”, di cui ragiona il filosofo Jan Patochka sono sempre immanenti in ogni epoca umana e la loro riconoscibilità è un compito a cui nessuno deve sottrarsi, allo stesso modo in cui siamo tenuti a riconoscere il bene e le “forze del giorno”.
Da questo punto di vista è importante, a livello pedagogico, istruire la società sulla possibilità dell’abisso a cui potrebbe arrivare la condizione umana, allo stesso modo in cui uno scienziato responsabile mette in guardia sul rischio possibile della distruzione totale del pianeta come conseguenza dei cambiamenti climatici. E’ questo il destino che ci attende se non siamo capaci di mettere in atto delle misure di prevenzione.
Ma ecco la trappola della memoria. Se si racconta solo l’abisso e non si individuano in ogni generazione le stazioni intermedie che possono farci scivolare nel baratro del male estremo non saremo in grado di trovare gli antidoti che possono preservare in ogni epoca la pluralità umana dalla sua possibile distruzione. Così il discorso dell’unicità, indipendentemente dalle migliori intenzioni, diventa una fuga dalla responsabilità. La memoria si trasforma così in una ritualità che fa comodo a quanti ci vogliono spingere in una cattiva direzione. Ci sono tanti sulla scena pubblica che si fanno vanto nei confronti degli ebrei e di Israele, ricordando retoricamente il genocidio degli ebrei, ma poi usano parole malate, propongono delle modalità di odio e di disprezzo verso l’altro, l’avversario politico, il migrante, lo straniero ( è questa la cultura del nemico che apre alle persecuzioni scritte e non scritte), oppure che educano costantemente all’indifferenza nei confronti delle tragedie e delle ingiustizie che subiscono altri popoli. Pace per alcuni significa stare in pace, non sentire il fastidio dell’ascolto dell’altro e del dovere della prossimità. Sono i nuovi teorici della zona grigia.
E’ proprio il terreno della zona grigia che potrebbe riportarci inconsapevolmente al nuovo abisso il terreno su cui dovrebbe operare l’esercizio responsabile della memoria. Non potremo mai prevedere il futuro, ma abbiamo il compito di individuare in ogni epoca le possibili stazioni del male che possono riportaci in mano alle forze della notte.
C’è infatti un filo invisibile che lega la memoria della Shoah ai discorsi di odio nei social, al disprezzo della persona sulla scena pubblica, a chi vuole mettere in discussione la democrazia e far tacere l’espressione della pluralità umana, a chi introduce leggi ingiuste che impongono la discriminazione della donna nei paesi fondamentalisti o che mettono fuori legge gli Lgbt e le identità di genere, a chi vuole sopprimere la cultura delle minoranze, a chi nega il diritto di esistenza ad altri popoli.
E’ molto in voga la parola “banalizzazione”, quando si nega sulla scena pubblica l’enormità della Shoah e si fanno dei paragoni inappropriati, come è accaduto ad esempio quando i No vax hanno indossato la stella gialla sulle loro giacche.
Il negazionismo sottile è certamente un pericolo, perché riduce nell’immaginario collettivo la sofferenza del male estremo. Ma la più grande trappola della banalizzazione della Shoah è quando cessa di essere sulla scena pubblica una lente di ingrandimento in grado di accendere la nostra coscienza sui nuovi mali nel tempo presente e si trasforma in una semplice fotografia di un tempo passato che non ci dà modo di metterci in gioco. E’ forse la memoria spettacolo dell’orrore che vediamo in tante gite di studenti ad Auschwitz che tornano emotivamente provati, ma poi non sono in grado di trasformare la loro esperienza di viaggio in una dimensione di responsabilità, perché i professori non li hanno guidati a guardare e a conoscere il mondo in cui vivono. Ai ragazzi non si insegna che si è giusti nel proprio tempo: il passato si riscatta solo con l’assunzione di responsabilità nel presente.
Quando un medico prescrive un vaccino contro il Covid a un paziente non può prevedere se il farmaco gli servirà per evitare il contagio. Non è detto che il paziente possa incontrare una situazione che lo metta in pericolo. Può darsi che il vaccino sia una precauzione inutile. Ma quando il medico discute con il paziente gli spiega le possibili stazioni della malattia che potrebbe evitare: dalla febbre, alla infezione dei polmoni, fino alla possibilità di dovere lottare per la sopravvivenza in una camera di rianimazione in ospedale. E’ lo stesso procedimento che si dovrebbe seguire con la trasmissione della memoria. Bisogna mettere in guardia la società dalle possibili stazioni del male che potrebbero inquinare la condizione umana e creare una situazione estrema. Non sappiamo se effettivamente accadrà il peggio, ma il “vaccino della memoria”, se indica le possibilità del male contemporaneo allo stesso modo del medico che mette in guardia il paziente, può accendere la scintilla della responsabilità.
La memoria ha effetto quando plasma l’etica delle persone ed educa a nuovi comportamenti.
Molti ritengono che lo studio della storia e la sua divulgazione sia sufficiente per comprendere il passato tragico e per avere gli strumenti per prevenirlo. Non è così. Si può conoscere senza comprendere e rimanere passivi. Pochi hanno compreso la forza della scrittura di Primo Levi attorno alla sua prigionia ad Auschwitz. I suoi libri sono un grande insegnamento di etica, proprio da un luogo dove l’etica era stata sommersa assieme alle anime e ai corpi delle vittime. Chi lo legge entra ad Auschwitz non perché acquisisce nozioni, ma perché è costretto a fare un esame di coscienza su sé stesso, allo stesso modo che lo scrittore torinese lo ha fatto con straordinaria onestà attorno alla sua esperienza nel campo. Quando Primo Levi indaga sulla zona grigia, distingue tra i Kapo chi picchia con furore e compiacimento e chi invece trattiene la violenza del gesto; ricorda il gesto di un operaio che al di là del filo spinato gli ha offerto un maglione; si rammarica per avere nascosto un pezzo di pane al suo compagno per non doverlo dividere per sopravvivere, e in questo modo spinge il lettore che lo vuole ascoltare in profondità a fare un autoesame sulla propria esistenza. E così veramente capisce Auschwitz perché a sua volta si interroga se nella sua vita gli è capitato di umiliare il corpo dell’altro, di rimanere indifferente di fronte a una ingiustizia, o di avere cercato di preservare la sua bontà interiore minacciata da un ambiente che lo invitava a voltare la testa dall’altra parte per il suo quieto vivere.
Una grande trappola della memoria è sempre stata quella di mettere in secondo piano l’educazione etica, senza la quale non saremo in grado di modificare i nostri comportamenti.