(foto EPA)

lo schianto a brovary

Tre ipotesi sulla morte del ministro ucraino Monastyrsky e del suo vice

Adriano Sofri

Oltre al titolare dell'Interno e il suo vice, nel crollo dell'elicottero contro l’asilo sono morte altre 12 persone. Che si tratti di incidente o di sabotaggio, comunque senza la guerra iniziata da Mosca non sarebbe accaduto

Odessa, dal nostro inviato. La società ucraina e il suo governo hanno subito un doppio colpo durissimo nel giro di quattro giorni. Il bombardamento del condominio di Dnipro che è costato molte decine fra morti e dispersi, e più di 70 feriti, e il crollo dell’elicottero a Brovary, periferia di Kyiv, in cui sono morti il ministro dell’Interno e il suo primo vice e 13 altre persone, e 25 sono rimaste ferite. In ambedue i luoghi hanno perso la vita dei bambini: cinque a Dnipro, dentro le loro case, e un numero imprecisato, quando scrivo, a Brovary, dove per colmo di sventura l’elicottero è caduto vicino a un asilo infantile, nel momento in cui i genitori accompagnavano i piccoli.  


E’ soprattutto questo commovente dettaglio ad accomunare le due circostanze, ben prima che si accerti una versione sulla caduta dell’elicottero, sulla quale per ora, e probabilmente per parecchi giorni ancora, si ipotizzano tre cause diverse: la nebbia, un guasto meccanico, un sabotaggio. Il sabotaggio, nonostante l’apparenza, sarebbe la più orribile e temibile: dirotterebbe sui russi la responsabilità, ma mostrerebbe una vulnerabilità intima dell’Ucraina finora nemmeno immaginata. Dunque si deve sperare che ad accanirsi sia stata la sorte.

 

Il ministro dell’Interno, Denis Monastyrsky, aveva 42 anni, era coetaneo del suo vice, Yevhen Yenin, e di due anni più giovane del presidente Zelensky, al quale doveva la sua nomina e il credito di una forte fiducia. Il ministero dell’Interno in guerra ha un rilievo inferiore solo a quello della Difesa. E Monastyrsky era stato nominato, nel 2021, dopo che per 7 anni il ministero era stato appannaggio, lungo cinque governi successivi, di Arsen Avakov, 59 anni, già governatore di Kharkiv e titolare di un curriculum accidentato, compreso un arresto dell’Interpol a Frosinone nel 2012, revocato poi grazie all’immunità parlamentare ottenuta in patria. Ad Avakov si rinfacciava da numerose organizzazioni civili, singole personalità e parlamentari dell’opposizione l’affarismo, l’inerzia rispetto alla ripulitura dei servizi di polizia, la promozione alla loro testa di personaggi notoriamente di estrema destra. 

 

Yevhen Yenin aveva svolto la sua carriera nei servizi di sicurezza e nelle rappresentanze all’estero, compresa l’ambasciata italiana. Sarebbe stato il candidato naturale alla successione a capo del ministero. Qualcuno ha osservato che occorrerebbe evitare di mettere insieme in una stessa azzardata circostanza, come in questo caso, il ministro e il suo vice (e un terzo alto dirigente del ministero, Juriy Lubkovich, 34 anni): un errore che evoca quello della concentrazione di truppe in una sola e identificata caserma, che è costata ai russi la falcidie di Capodanno. Erano stati nelle mani di Yenin dossier cruciali come quello delle riparazioni dei danni da parte della Russia, e anche dell’Iran, per l’abbattimento di un Boeing ucraino ad opera dei pasdaran nel gennaio 2020, 170 morti. 

 

Nella classe dirigente politica ucraina, e specialmente nella generazione sempre più decisiva dei – più o meno – quarantenni, quella del presidente, spesso i rapporti politici sono strettamente legati a quelli personali, ciò che può rendere più difficile interpretarne l’evoluzione. Il massacro di Dnipro aveva appena procurato all’istrionico (anche lui attore, del resto) e popolare Oleksiy Arestovich, 47 anni, una estromissione dall’Ufficio di Presidenza, per metà dimissione, per metà espulsione. Il fatto è che secondo lo stesso Ufficio, Arestovich non era formalmente un consigliere, precisazione che ha sollevato la domanda ironica su come si possa licenziare un consigliere che non lo è. Quanto alle dimissioni, lui le ha date dopo una sequela di rettifiche e scuse presentate e ritirate, proclamando fermamente di voler dare un esempio di correttezza civile: Ho commesso un grosso errore, mi dimetto. La spiegazione che alla fine ha lui stesso fornito sul grosso errore – l’attribuzione alla contraerea ucraina della distruzione del palazzo di Dnipro e della strage di civili, compiute in realtà da un missile russo – suona abbastanza plausibile. Qualcuno, “un ufficiale già suo compagno d’armi”, gli avrebbe soffiato all’orecchio quella ipotesi, e – deduzione di chi ascolta – la fretta di arrivare primo a fornirla pubblicamente l’avrebbe portato all’incidente frontale che ne ha interrotto o deviato la carriera. Sembra ovvio che il riconoscimento finale sul grave errore commesso escluda conseguenze enormi come l’addebito di alto tradimento. Sembra altrettanto probabile che nella nuova condizione Arestovich trovi il modo di proporsi in un personale progetto politico. 

Ho una postilla, che non vorrei che suonasse severa, appena seria: se fossi un italiano che è saltato in groppa alla sciocchezza di Arestovich, per amor di Russia o per desiderio di equidistanza – sono tutti cattivi – mi porrei il problema di che cosa fare, dato che a differenza di lui, nessuno mi licenzia da niente, e non mi dimetto da niente.

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