I realisti smascherati
Così la brutalità russa ha scardinato buona parte delle tesi dei realisti
Henri Kissinger e lo sgretolamento della teoria della provocazione a Mosca: "Penso che l'appartenenza dell'Ucraina alla Nato sarebbe un risultato appropriato"
Milano. Henry Kissinger, persino Henry Kissinger, il re quasi centenario del realismo americano, ha cambiato idea sull’Ucraina, la Nato e la Russia. All’incontro a Davos cui ha partecipato in settimana, ha detto: “Prima della guerra, ero contrario all’adesione dell’Ucraina all’Alleanza atlantica perché temevo che questa adesione avrebbe avviato proprio il processo cui stiamo assistendo adesso. Ora che questo processo ha raggiunto tale livello, l’idea di un’Ucraina neutrale a queste condizioni non è più sensata. E alla fine del processo che ho descritto, penso che l’appartenenza dell’Ucraina alla Nato sarebbe un risultato appropriato”. Kissinger ha sempre messo in guardia il mondo sul fatto che il sostegno occidentale all’Ucraina potesse rappresentare una provocazione ai danni della Russia – una provocazione fatale, essendo la Russia dotata dell’arma atomica – e che per questo fosse necessaria una grande cautela. Oggi dice che non bisognava arrivare a questo punto, ma ora che ci siamo arrivati, allora il sostegno della Nato all’Ucraina, e il suo ingresso nell’Alleanza, sono sensati, se non necessari. A portarci fin qui non è stato l’estremismo belligerante della Nato, ma quello di Vladimir Putin e della sua aggressione continuata, violenta, indiscriminata all’Ucraina: Putin avrebbe potuto mettere fine alla guerra in qualsiasi momento, ma non l’ha voluto fare, non vuole farlo, e per questo l’Ucraina, con i suoi alleati, non può smettere di difendersi. Sono passati quasi undici mesi dall’invasione russa: migliaia di morti, milioni di rifugiati, milioni di sfollati, danni incalcolabili a un paese che conta di quanti minuti si allunga ogni giornata perché vuol dire che il gorgo invernale resta alle spalle, con il suo freddo, il suo buio, la sua distruzione. In questi undici mesi, la brutalità russa ha via via sgretolato le cautele dei realisti – politici, intellettuali, commentatori – e parte delle loro tesi perverse sulle provocazioni.
Il dibattito è molto cambiato dal febbraio dell’anno scorso, con le bombe e gli attacchi ininterrotti della Russia. Come conferma oggi Kissinger, la tesi del Cremlino secondo cui l’invasione dell’Ucraina era fatta per evitare l’espansione della Nato è stata smentita dai fatti. Non solo quelli di oggi, anzi forse si può dire che questo elemento della propaganda putiniana è collassato quando la Svezia e la Finlandia hanno chiesto di entrare nell’Alleanza atlantica. Lì è stato chiaro che la Russia ha invaso l’Ucraina non perché Kyiv ambisse a entrare nella Nato, ma perché non era un membro della Nato. Sanna Marin, premier finlandese che aspetta la ratifica di Ungheria e Turchia per sentirsi più al sicuro sotto la protezione della Nato, ha detto in un incontro a Davos: sono “sicura” che Putin non avrebbe invaso l’Ucraina se questa fosse stata dentro l’Alleanza, “non ci sarebbe stata la guerra e questo è il motivo per cui Finlandia e Svezia vogliono ratificare la propria appartenenza alla Nato”. Anche l’ipotesi di un negoziato imposto agli ucraini – un altro tema ricorrente nel mondo realista che ha denunciato, in varie forme, la volontà ucraina di riprendere il territorio sotto la propria sovranità occupato illegalmente dai russi – è andata sgretolandosi: è apparso chiaro anche ai più cauti che fermare il paese aggredito perché non si riesce a contenere il paese aggressore non è un negoziato né una pace, ma una resa. I termini con cui si parla di pace oggi sono completamente diversi rispetto a quelli dello scorso anno, così come quelli con cui si parla di vittoria: prima si diceva che bisognava impedire alla Russia di vincere, oggi si dice che è necessario fare tutto il possibile perché l’Ucraina vinca, e questo non per assecondare un desiderio di annientamento della Russia – è il vittimismo putiniano a metterla così – ma perché l’invasione del 2014 in Donbas e in Crimea mostra che se il varco resta aperto, Putin si riorganizza e torna.
Naturalmente non tutto il mondo realista, con i suoi addentellati negli ambienti cosiddetti pacifisti, ha preso consapevolezza di quanto l’aggressività immotivata russa abbia scardinato i princìpi della realpolitik. Anche perché il Cremlino continua a portare avanti le sue operazioni dialettiche per confondere l’opinione pubblica occidentale e condizionare le scelte dei loro leader: per Mosca lo sforzo militare e finanziario concordato ieri nel vertice di Ramstein è un’escalation del conflitto che avrà conseguenze nefaste sull’occidente, che ben presto ritroverà le armi che sta fornendo all’Ucraina in mano a gruppi che le useranno per distruggerlo. Questa retorica trova ancora grande spazio nel dibattito sulla guerra, dove il fronte realista-pacifista si è curiosamente allarmato di più per le armi fornite dalla Nato a Kyiv che per quelle fornite dall’Iran o dalla Corea del nord o dalla Cina alla Russia. Un altro celebre esponente della scuola realista, John Mearsheimer, ha detto la settimana scorsa in una conversazione con la Oxford Review: “I fatti dimostrano che Putin e i suoi luogotenenti erano motivati principalmente dal fatto che l’occidente fosse profondamente impegnato a fare dell’Ucraina un baluardo occidentale ai confini della Russia. I russi hanno chiaramente affermato che si trattava di una minaccia esistenziale e non avrebbero lasciato che accadesse. E questa è la causa principale del conflitto. Il mio punto è che se si guardano i fatti di questo conflitto, diventa evidente che non sono i russi i principali driver dietro questo conflitto”. A dicembre Mearsheimer aveva usato un’altra espressione per commentare l’impegno degli occidentali nel sostegno militare all’Ucraina: “They are asking for trouble”, se la cercano. Per lui ogni paese deve pensare ai fatti propri, ogni azione esterna è un’ingerenza inutile e pericolosa: tende però a non parlare della necessità di difendersi dall’ingerenza violenta di un altro paese – cosa forse dicibile undici mesi fa, oggi no.