prigioni di putin

Dove finiscono i soldati russi che si rifiutano di combattere in Ucraina

Micol Flammini

Nella colonia numero 19 nella regione di Luhansk si trova uno dei centri di detenzione che il vocabolario della guerra russo chiama  “centri per mantenere la prontezza per il combattimento”. E' una struttura di prigionia per chi non approva la guerra o chi ne ha paura e vuole lasciare il fronte

L’arrivo di una nuova ondata di mobilitazione potrebbe essere annunciato prima della primavera. La Duma sta lavorando a una legge per controllare i russi che entrano ed escono dalla Russia e presto, per chi lascia il paese, potrebbe essere necessaria un’autorizzazione preventiva da parte delle autorità. Qualche oppositore lo ha chiamato un “eccidio di maschi russi”, alludendo al fatto che la prossima chiamata alle armi potrebbe essere più ampia della prima, che era stata definita “parziale”. Il Cremlino ha fatto sapere che nessuno ha intenzione di chiamare il conflitto in modo diverso da “operazione militare speciale” e non essendo una guerra, chi viene mandato a combattere può anche rifiutarsi, oppure, una volta al fronte, un soldato può anche avere dei ripensamenti e chiedere di tornare a casa. Al fronte, però, l’invasione funziona esattamente come una guerra: chi non è d’accordo è obbligato a restare, mandato spesso in prima fila e punito severamente. Verstka, un sito russo di inchiesta indipendente, ha calcolato che nei primi cinque mesi dell’invasione, almeno 1.800 soldati si sono rifiutati di combattere. Tra di loro, c’erano anche volontari: ragazzi che avevano creduto alla storia dell’operazione per liberare gli ucraini dai nazisti e, una volta in Ucraina, si sono accorti che, più che liberare, l’esercito russo stava occupando, che i nazisti non c’erano, ma c’erano cittadini che venivano privati di tutto proprio dai soldati di Mosca. 

 

A quel punto qualcuno, tra i russi, ha anche scelto di tornare indietro, di non voler più servire una causa che riteneva sbagliata. Dopo aver formulato la richiesta per abbandonare il fronte e tornare in patria, però, alcuni soldati hanno raccontato alle testate iStories e Mediazona di aver scoperto che non c’era nessuna possibilità di lasciare l’Ucraina: o si rimaneva al fronte o si veniva spediti in campi “per obiettori di coscienza”, “lager dlja otkaznikov”, che però nel dizionario riscritto dal 24 febbraio, vengono chiamati “centri per mantenere la prontezza per il combattimento” – in russo: centr podderzhanija voevoj gotovnosti – dove si fa tutto fuorché alimentare la prontezza, la forza o la voglia di combattere. Il più raccontato di questi centri si trova nella sedicente Repubblica popolare di Luhansk, nella parte orientale dell’Ucraina occupata dai russi. All’ingresso di questi centri ai soldati viene chiesto di abbandonare cellulari o qualsiasi mezzo di comunicazione. Si tratta di strutture fatiscenti, con livelli igienici molto scarsi. Sono dei campi di prigionia mascherati da strutture che, sulla carta, dovrebbero aiutare i soldati a tornare sul campo di battaglia, ma nella realtà servono a punire chi non approva l’invasione. Non tutti coloro che vogliono lasciare il campo di battaglia lo fanno per motivazioni ideologiche, alcuni hanno dei traumi, sono spaventati, ma a tutti quello che succede è di ritrovarsi prigionieri del loro stesso paese. I primi soldati che volevano lasciare il fronte sono stati rinchiusi in una scuola a Brjansk, in Russia, salvo poi essere stati trasportati a Perevalsk, in Ucraina, in un penitenziario molto fatiscente noto come colonia numero 19, in cui a fare da padroni, in alcuni casi, arrivavano anche gli uomini della Wagner. I soldati hanno raccontato di violenze fisiche e psicologiche, di minacce continue: una delle più frequenti era che sarebbero stati trasferiti dai reggimenti regolari a quelli irregolari tra gli uomini della Wagner, per essere usati come “carne da cannone” dei mercenari. 

 

Molti resoconti sono arrivati dalle mogli dei soldati e tutto ciò che hanno saputo, spesso, è stato raccontato dai mariti durante telefonate più volte interrotte per la paura di essere ascoltati. Le testimonianze più preziose vengono da chi è riuscito a tornare indietro, spesso perché sarebbe stato inutile sul campo di battaglia anche come carne da cannone e una volta in Russia ha cercato di riorganizzare i suoi ricordi, di cercare avvocati, organizzazioni disposte a seguirlo in una battaglia per raccontare cosa succede a Perevalsk nella colonia numero 19. Nel tornare, questi soldati hanno però trovato molto silenzio, una giustizia inesistente, una paura diffusa anche da parte di altri soldati che avevano affrontato la stessa esperienza. Una frase riferita a iStories racconta al meglio cosa ha significato per molti il ritorno in Russia: più della paura della guerra, c’è la paura di raccontarla.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)