Ebreo errante
Il piano di riforme d'Israele mina i valori della democrazia. Per la gioia dei nemici
Kim Scheppele ha parlato della "sindrome di Frankenstein". Si prende un occhio, un braccio, una gamba da un paese e si crea una creatura nuova. Con questa si fa finta di non star minando le fondamenta dello stato di diritto. Il caos Netanyahu
Israele, come molte altre democrazie oggi, è una società profondamente polarizzata. Il principio che domina il dibattito pubblico in queste società tipicamente è: “Tu sei per noi o per i nostri avversari” (Giosuè 5, 13). Che si tratti dell’interminabile conflitto arabo-israeliano e dei cinquantacinque anni di occupazione dei territori (anche come chiamarli è una questione divisiva) o dei problemi di chiesa e stato derivanti dalle tensioni intrinseche circa l’autodefinizione di Israele come stato ebraico e democratico, si può prevedere con infallibile certezza chi si troverà da una parte e dall’altra delle barricate verbali, politiche, e a volte anche fisiche. Negli ultimi tempi, la figura di Netanyahu e i guai giudiziari che sta affrontando hanno reso più profonda la polarizzazione.
È quindi significativo che, nella recente esplosione di critiche in risposta al nuovo piano del governo Netanyahu di riformare il sistema giudiziario, non solo i numeri delle proteste siano stati di una portata senza precedenti, ma che dalla parte antigovernativa dell’attuale barricata ci siano, sia in Israele, sia nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, figure di spicco e molti comuni cittadini – sionisti “patentati”, di centrodestra – che uno non si aspetterebbe di trovare. Persino l’ex capo dello stato, membro di lungo corso del Likud, insieme a molti altri della vecchia guardia di Menachem Begin, ha espresso pubblicamente profonda preoccupazione.
Anche sulla scena internazionale, paesi da tempo amici e solidali con Israele stanno cambiando posizione.
Non dovrebbe sorprendere. È diffusa la percezione, non del tutto infondata, che il piano del governo, delineato dal neoministro della Giustizia, sia il 6 gennaio israeliano ‒ paragonabile, cioè, all’assalto a Capitol Hill. Il diffuso rifiuto e la condanna, negli Stati Uniti e altrove, degli eventi del 6 gennaio non sono stati alimentati dagli eccessi, o addirittura dalla violenza dell’evento, ma da ciò che è stato percepito come un attacco ai valori e alle istituzioni fondamentali della democrazia americana. E questo stesso sentimento, condiviso anche dagli strenui difensori dello stato di Israele “nel bene e nel male”, è presente nelle obiezioni alla riforma proposta: un attacco ai valori e alle istituzioni fondamentali della democrazia israeliana.
La misura del livello di allarme la si coglie in un intervento insolito per il presidente della Corte suprema che, in un recente discorso pronunciato in un forum tecnico, ma trasmesso in diretta su tutti i canali dei media israeliani, ha espresso le opinioni di molti, compresi alcuni tra i più acuti e sobri critici della Corte: quello che viene travestito da piano di “riforma” è, sia nelle intenzioni sia negli effetti, un piano per mandare in frantumi alcune delle basi fondamentali della separazione dei poteri e dello stato di diritto, senza le quali nessuno stato può legittimamente pretendere di essere democratico.
A un profano, le quattro principali riforme suggerite (ed è stato annunciato che ce ne sono altre in arrivo) possono sembrare abbastanza innocenti: rendere tutte le nomine giudiziarie appannaggio del governo in carica (in fondo, non è forse così negli Stati Uniti e altrove?); richiedere una super maggioranza dei giudici per bocciare la legislazione parlamentare (proposta non irragionevole, a prima vista), ma poi permettere al Parlamento di annullare – anche con una maggioranza di un solo voto – le decisioni costituzionali della Corte (il Canada o la Finlandia, ad esempio, non hanno misure simili in materia di annullamento?); infine, proibire alla magistratura di utilizzare il criterio della “irragionevolezza”, o addirittura dell’estrema irragionevolezza, nel vagliare le azioni di ministri e funzionari pubblici (non si tratta di una questione meramente tecnica, che porta acqua al mulino dei professori di diritto?).
E che dire dell’obiezione del “e allora? Non si possono forse trovare paralleli a tali misure in molte rispettabili democrazie?”. Kim Scheppele, docente a Princeton, parlando dell’Ungheria, ha definito questo argomento la sindrome di Frankenstein. Si prende una gamba da questo paese, una mano da un altro e un naso dall’altro ancora, e si ottiene una creatura che non esiste da nessun’altra parte e che non sarebbe accettabile in nessun paese che rivendichi credenziali democratiche.
L’effetto cumulativo della riforma prevista è quello di smantellare le caratteristiche fondamentali della separazione dei poteri e del sistema dei pesi e contrappesi, eliminando i vari controlli giurisdizionali e legali volti a impedire che un legislatore, anche se democraticamente eletto, instauri una “tirannia della maggioranza”, e consentendo al ramo esecutivo di un tale governo di adottare misure, da parte della polizia, del fisco e di tutte le amministrazioni, che sono soggette a un controllo giudiziario gravemente indebolito. A rischio sono, in particolare, le tutele dei diritti individuali e delle minoranze.
Le regole da sole non definiscono una democrazia: anche la cultura politica e le abitudini normative democratiche svolgono un ruolo importante. La proposta di una profonda politicizzazione di tutte le nomine giudiziarie, che compromette direttamente o indirettamente l’indipendenza della magistratura, è ancora più allarmante agli occhi dei critici, se si considera che questo particolare governo dipende da alleati, che hanno ministeri chiave sensibili, la cui agenda e le cui politiche dichiarate (apertamente razziste e suprematiste) sono ben al di fuori del consenso politico e sono state un anatema per tutti i governi israeliani, sia di destra sia di sinistra, fino a due o tre anni fa. Ora avranno mano libera, o più libera, per perseguire tale agenda, in alcuni casi forse in modo irreversibile. Gli attacchi diretti dei vertici del governo contro alti funzionari, come per esempio il procuratore generale, sono già la prova di questa tendenza.
La riforma affonda le proprie radici nella percezione che il centrosinistra, avendo perso il potere nell’arena democratica, stia imponendo i suoi valori attraverso il sistema giudiziario, con giudici acculturati e formati da una cultura liberal dominata dalle élite non sefardite. Certo, il sistema legale e giudiziario israeliano, come molti altri, è ben lungi dall’essere perfetto e i suoi critici, di destra e di sinistra, non sono mancati sia nel mondo accademico, sia in quello legale. Solo per fare qualche esempio, è problematica la base stessa del controllo giurisdizionale in uno stato che non ha una costituzione formale.
E, ancora, la gamma di questioni che la Corte suprema israeliana considera sottoponibili a giudizio è più ampia che altrove, ed essa si trova a decidere questioni che sarebbe meglio lasciare all’arena politica. La composizione della Corte in termini identitari e ideologici non riflette adeguatamente la società multiculturale israeliana. E l’elenco non finisce qui. Tutte queste critiche, e altre ancora, non sono prive di fondamento. C’è, quindi, molto da correggere e una riforma ponderata ed equilibrata del sistema giudiziario avrebbe ampio sostegno.
Ma l’approccio “terra bruciata” che mostrano le attuali proposte di riforma non è meno pericoloso, e anzi forse lo è anche di più, di una folla che assalta un parlamento. Il fatto che i nemici di Israele (e ce ne sono molti) salteranno sul carro non dovrebbe impedire agli amanti e ai sostenitori di Israele di far sentire la loro voce di dissenso.
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