Kyiv è come una storia di famiglia, ci dice un banchiere polacco scampato ai totalitarismi
Salvezza e solidarietà sono sorelle: l’incertezza ma anche forza traccia la linea che collega i ricordi della Shoah con la vita degli ucraini spezzata dall’attacco russo. Parla Józef Wancer
Milano. “Quel che sta succedendo in Ucraina è molto simile a ciò che è accaduto alla mia famiglia nel 1940”, dice Józef Wancer, economista, manager, banchiere polacco che ha dedicato la sua vita alla costruzione: della memoria della Shoah, della Polonia dopo la caduta del Muro, e oggi della nuova vita degli ucraini che scappano dalla guerra di Vladimir Putin. Parla della sua storia e di quelle, tantissime, in cui si è imbattuto nei suoi ottant’anni di vita illuminati da un sorriso rincuorante: a tenere insieme la sua nascita in un gulag sovietico, la ferocia nazista, la partenza per l’America con cinque dollari “perché era il massimo consentito”, la carriera globetrotter di successo a Citibank, il ritorno in Polonia dopo il 1991 dove “pensavo di fermarmi un paio d’anni” e dove vive ancora, l’impegno nella Fondazione Auschwitz-Birkenau e oggi con Gariwo nel Giardino dei giusti di Varsavia, e lo “spin off” per accogliere i rifugiati ucraini è la determinazione a rimettere insieme i pezzi di chi è sopravvissuto agli orrori, dando la possibilità di aprire un mutuo o compilando i moduli per ottenere lo status di rifugiato o fornendo un pasto sicuro. Gli strumenti sono tanti, basta saperli usare, dice Wancer, “a me interessano le persone”, la loro salvezza.
“Mia madre dovette nascondersi in uno scantinato a Varsavia assieme a mia sorella per evitare di essere stuprata dai nazisti – racconta Wancer adagio e preciso – Non lo sapeva nessuno, soltanto mia nonna che portava da mangiare di nascosto. Rimasero lì per tre mesi: erano diventate quasi cieche e non riuscivano a camminare, perché erano state al buio, al freddo, ferme, in silenzio per tutto quel tempo. Quando uscirono da quel piccolo rifugio, mio padre disse: dobbiamo partire, qui non sopravviviamo. Mia nonna si mise a massaggiare le gambe e i piedi di sua figlia e sua nipote per rimetterle in piedi, zoppicanti ma in grado di scappare e mettersi in salvo. I rifugiati ucraini che sono arrivati in Polonia dopo l’invasione mi ricordano moltissimo quell’urgenza di partire per salvarsi”. Wancer ha creato subito, dopo l’invasione russa in Ucraina, una piccola sorella della Fondazione Auschwitz-Birkenau, con tre persone che ci lavorano, dedicata ai rifugiati ucraini: “Ogni mattina, per qualche giorno, quando è arrivata la prima ondata di ucraini in fuga, l’amministratore del centro allestito per i rifugiati ci diceva di che cosa c’era bisogno: noi avevamo il latte, ma non era il latte per i neonati, quindi non era utile; avevamo molto cibo, ma non era quello che serviva. Così abbiamo caricato un furgone con le cose necessarie e nel giro di poche ore lo abbiamo mandato al centro. Abbiamo scelto questo metodo diretto e immediato perché mi ricordo che mia madre mi diceva: non sono le nazioni che aiutano le persone, non sono i governi, non sono i politici, sono gli esseri umani. Quando la mia famiglia fuggì dalla Polonia, si ritrovò in Bielorussia in un magazzino, con tante altre persone in fuga sedute sul pavimento. Arrivarono due persone anziane, videro che mia sorella tossiva forte e dissero: prendiamo lei e i suoi genitori, li portiamo a casa nostra. La salvezza ad hoc, guardandosi negli occhi: è questa che fa la differenza. La fece allora durante il nazismo e abbiamo cercato di farla anche adesso riducendo a cinque giorni il tempo necessario dall’arrivo dei rifugiati ucraini dal confine al centro: un posto in cui stare, il cibo, i documenti per poi poter andare altrove, a costruire il pezzetto di vita successivo”. Wancer ha visto donne, uomini, bambini, nonni, cani, gatti, dipendenti della filiale di Paribas (oggi è presidente onorario del board della banca francese) arrivare dall’Ucraina, racconta la loro paura, lo spaesamento, l’incertezza ma anche la loro forza e traccia la linea che collega i ricordi della Shoah con la vita degli ucraini spezzata dall’attacco russo.
Pensa al futuro, Wancer, dice che ha gli strumenti e soprattutto l’esperienza per aiutare l’Ucraina nella ricostruzione – anche se oggi i progetti sono sospesi “perché è inutile ricostruire se sai che domani un missile russo potrebbe distruggere ogni cosa di nuovo” – s’interroga su che cosa vuol dire “vincere la guerra e vincere la pace”, ma il suo sguardo è sempre rivolto agli esseri umani. “Un passo alla volta – dice – Bisogna muoversi un passo alla volta. Quando penso alla ricostruzione delle persone dopo il nazismo e ora dopo questa guerra, penso ai percorsi che fanno gli alcolisti o i drogati per uscire dalla loro dipendenza. Si fa spesso l’errore di pretendere che guariscano su tutti i fronti allo stesso tempo, mentre è necessario avere la pazienza di procedere un passo alla volta. Gli ucraini che vivono la tragedia della guerra russa, la distruzione, le bombe, la morte, hanno soltanto due pensieri: la sopravvivenza, giorno per giorno, e l’odio per chi ti ha causato tutto questo dolore. Non riescono a pensare a Putin, pensano alla Russia intera: per loro l’attacco è di tutto il paese, milioni di stupratori che lanciano le bombe per ucciderti. I rifugiati che ho incontrato sono scappati dagli stupri, altri sono stati stuprati, altri sono arrivati con tre figli ma il quarto è stato ucciso: è impossibile in quel momento parlare del futuro, della riconciliazione possibile tra Ucraina e Russia tra chissà quanti anni. Conta salvarsi oggi e nella salvezza c’è anche l’odio per chi ti ha costretto a tutto questo. Qualcuno pensa al passo successivo, alla possibilità di un accordo, ma poi chiede: chi ci dà la garanzia che tutto questo non accada di nuovo? Di accordi ce ne sono stati parecchi, tra Kyiv e Mosca, ma sono stati puntualmente violati”. La pace è possibile, “francesi e tedeschi si sono fatti la guerra per secoli e poi dopo la Seconda guerra mondiale sono riusciti a convivere. Ma bisogna saper aspettare, costruire, ricordare”, un passo alla volta, un camion di cibo alla volta, perché salvezza e solidarietà sono sorelle.