Morti a Gerusalemme
Dopo la battaglia di Jenin, le brigate al Aqsa portano la guerra nella città santa, colpendo una sinagoga
Almeno otto persone, tra cui dei bambini, sono state uccise venerdì 27 gennaio dopo che un uomo – poi identificato: è palestinese – ha aperto il fuoco in una sinagoga nel quartiere di Neve Yaakov a Gerusalemme. La polizia è intervenuta subito e l’attentatore è stato ucciso, ma sta cercando chi lo ha portato fino a lì. “Un’operazione eroica”, l’ha definita il Jhiad islamico; “la vendetta per i morti di Jenin”, ha detto Hamas.
A Jenin c’è appena stata una delle battaglie più dure fra i terroristi palestinesi e l’esercito israeliano (dieci palestinesi uccisi), ma questa città una volta non era off limits per gli israeliani. Era frequentata prima della prima Intifada. L’attacco a Tel Aviv del 29 marzo 2022 è stato compiuto da Dhia Hamarsha, originario di Jenin. Molti dei grandi attentati sono stati compiuti da terroristi di Jenin. E dimostrano che “la battaglia di Jenin” non è stata vinta.
Ancora una volta Jenin è il centro del terrorismo in Cisgiordania e secondo le autorità israeliane almeno 23 dei 60 attentatori suicidi che hanno attaccato Israele provengono da Jenin. Vent’anni fa, il 29 marzo 2002, le forze di difesa israeliane lanciarono un’operazione militare su vasta scala nota come “Operazione Scudo Difensivo”, in diverse città della Cisgiordania. Il 27 marzo, appena due giorni prima dell’inizio dell’operazione militare, un attentatore suicida travestito da donna ebrea è entrato al piano terra del Park Hotel di Netanya, dove si teneva una cena del Seder pasquale. Si è fatto esplodere, uccidendo 30 civili israeliani. Era di Jenin. Dovranno passare sei anni prima che Israele consentisse ai cittadini arabi di entrare a Jenin per visitare parenti e fare acquisti. L’allora ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, parlò di “miracolo di Jenin”. “Due anni fa era impossibile per un inviato europeo incontrare il primo ministro palestinese a Jenin”. Le istituzioni governative furono ricostruite e Jenin divenne una vivace città di caffè, ristoranti e negozi. Fino a prima del Covid, è stata una delle città più prospere della Cisgiordania e con una forza israeliana relativamente piccola a vigilarla. Oggi è la capitale del Jihad islamico e di Hamas e l’unica città palestinese dove si possono vedere ancora milizie armate, come al tempo della Seconda Intifada.
Migliaia di giovani a Jenin sono sulla lista di controllo del terrorismo di Israele, rendendoli non idonei per i permessi di lavoro in Israele che permetterebbero loro di guadagnarsi da vivere. Il 56 per cento dei palestinesi di Jenin sostiene gli attacchi armati contro gli israeliani. Quest’anno, l’esercito israeliano ha sequestrato più di trecento armi – pistole, kalashnikov e M16 – lungo i confini giordano ed egiziano, quasi il doppio rispetto al 2021. Ha anche confiscato 160 armi all’interno della Cisgiordania, inclusi AK-47 e Tavors – le armi militari israeliane standard – che erano state per lo più rubate ai soldati israeliani. Il “Battaglione Jenin” ha visto lo slancio del reclutamento dopo un’evasione dalla prigione nel 2021 da parte di sei palestinesi ed è servito da modello per “battaglioni” simili a Nablus, Tulkarm, Betlemme e altre città della Cisgiordania. “Ci sarà fauda”, caos in arabo, annuncia Mohammad Sabbagh, uno dei capi del campo profughi di Jenin che durante la Prima Intifada dal 1987 al 1993 ha pugnalato a morte un soldato israeliano e scontato 23 anni in una prigione israeliana. “Questo è l’inizio”.
Jenin è la città dell’eterno ciclo del rifiuto dello stato ebraico.
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