Guerra ed energia
Il “Piano Mattei” in Libia ha insidie e tempi incerti. I guai della Noc
Meloni e Descalzi a Tripoli per firmare un accordo sul gas con la National Oil Corporation, soggetta a uno strano fenomeno: i suoi capitali appena immessi scompaiono. I sospetti su Haftar
Dopo l’Algeria, la Libia. La prova del nove per il “Piano Mattei” di Giorgia Meloni è a Tripoli, dove la premier atterra oggi insieme al ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e all’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. Sul tavolo, la firma di un contratto con la National Oil Corporation (Noc) da 8 miliardi di dollari per l’estrazione di 24 milioni di metri cubi di gas al giorno da due impianti offshore. Si tratta del più grande accordo sul gas stretto fra Italia e Libia dal 2011 a oggi e che potrebbe aiutare il nostro paese nella lunga marcia verso la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico entro il 2025. Una marcia che parte da lontano, perché gli accordi che Descalzi firmerà con il presidente della Noc, Farhat Bengdara, dovevano andare a regime già nel 2017. “Eni è in ritardo”, si è lamentato qualche giorno fa con i media arabi il ministro libico per il Petrolio, Mohamed Aoun.
Ma proprio per questo, la firma dell’accordo di Tripoli assume ancora più importanza. Nel 2022 il flusso di gas fra Libia e Italia attraverso il gasdotto Greenstream che arriva in Sicilia aveva raggiunto i minimi dal 2011, con appena 2,3 miliardi di metri cubi, a fronte di una capacità di 8 miliardi. La ragione del sottoutilizzo del gasdotto è stata l’aumento della domanda interna del gas, che lasciava alle esportazioni appena il 15 per cento.
Ma se l’Italia è in ritardo di cinque anni per l’avvio dell’investimento il motivo è un altro e riguarda l’instabilità della Libia e la sfiducia negli interlocutori a Tripoli. Secondo Jalel Harchaoui, ricercatore del think tank britannico Rusi, il cammino del “Piano Mattei” in Libia non sarà spedito come si potrebbe immaginare. “Difficile pensare che il flusso di denaro arrivi subito nelle casse della Noc. La domanda è: davvero Eni investirà questo capitale? La compagnia di stato libica attraversa un periodo di estrema debolezza”, spiega Harchaoui al Foglio. L’incontro di oggi è stato studiato da tempo nei dettagli e la compagnia italiana si dice tranquilla sull’investimento. Eni è socio della Noc al 50 per cento nella joint venture Mellitah Oil & Gas ed è a conoscenza delle difficoltà di Bengdara nel mantenere la compagnia lontana dalle dispute interne al paese fra le milizie dell’est e dell’ovest. A dicembre, il presidente della Banca centrale libica, Sadiq al Kabir, aveva dichiarato a Bloomberg di avere versato alla Noc circa 1,7 miliardi di dollari per “progetti imprecisati”. Ma tre giorni fa, Bengdara si è lamentato per la carenza di liquidità nelle casse della compagnia. Dove finisce allora il denaro versato nella Noc? I sospetti, rivelano fonti libiche che preferiscono restare anonime, vanno dritti verso chi, l’anno scorso, ha sponsorizzato la candidatura di Bengdara alla guida della compagnia, ovvero Khalifa Haftar e suo figlio Saddam.
La fiducia condizionata negli interlocutori libici rende rischioso l’investimento in Libia, che non è l’Algeria e dove basta poco a fare saltare l’equilibrio precario fra est e ovest. Le elezioni che l’Onu e l’Italia chiedono da anni sono state posticipate a tempo indeterminato e questo pone un problema per chi vuole stringere accordi con il primo ministro Abdelhamid Dabaiba, perché il suo mandato, in teoria, è scaduto a dicembre 2021. “Noi non riconosciamo gli accordi internazionali sottoscritti da Dabaiba e sono sorpreso da questo incontro, per concludere un contratto misterioso con Eni”, ha commentato mercoledì scorso Fathi Bashagha, il primo ministro del governo dell’est, sostenuto da Egitto e Russia e sponsorizzato da Haftar. L’accordo di oggi sarebbe “misterioso” perché, a dire di Bashagha, prevede un aumento delle quote di Eni nella Mellitah Oil & Gas a scapito dei libici. E’ una storia che il premier dell’est ripete da mesi e che la compagnia italiana ha sempre smentito, dichiarando che non esiste alcun accordo occulto o “misterioso”. Forse è questo il motivo per cui Meloni oggi non dovrebbe fare tappa a Bengasi, epicentro del potere di Bashagha e Haftar. I precedenti che dimostrano quanto sia complicato fare affari con Tripoli non mancano. A inizio gennaio, un giudice libico ha sospeso il memorandum di intesa firmato qualche mese prima fra Dabaiba e la Turchia e che autorizzava i turchi a compiere esplorazioni nelle acque territoriali libiche. Da Eni, dicono però che l’accordo di oggi sarebbe completamente diverso, perché non riguarda acque territoriali ma giacimenti al sicuro da eventuali instabilità interne – entrambi sono a decine di chilometri di distanza dalla costa, al largo di Tripoli – e soprattutto perché già da anni il Cane a sei zampe lavora in Tripolitania, anche per l’estrazione del gas come a Wafa e Bahr Essalam, senza alcun problema.
I conservatori inglesi