Un patto chiaro
Alle origini della lunga amicizia fra i paesi Nato
Una trasparenza sconosciuta al regime russo. Quello di Stalin come quello di Putin. C'è un motivo se non esiste ancora un memorial dedicato alla Guerra fredda. Una Cold War che si è trasformata, ma prosegue
A Washington non si percorrono più di cinque minuti a piedi senza trovare un memorial. Sparsi nella chilometrica distesa del Mall, il gigantesco spazio che si estende tra Capitol Hill e il memorial (appunto) di Lincoln, sono custoditi i ricordi di tutte le ferite e le grandezze di un paese che da due secoli e mezzo continua a interrogarsi sulla propria identità e il proprio posto nel mondo.
Scolaresche e turisti arrivano in continuazione dai cinquanta stati dell’Unione per riversarsi tra i monumenti commemorativi del Mall. Gente con l’accento del Kentucky, del Minnesota o della Louisiana, in perenne visita a un luogo di educazione collettiva sul significato della parola “America”. Il Mall è il luogo dove si festeggiano i presidenti che entrano in carica e dove si commemorano i loro predecessori scomparsi, primo tra tutti George Washington, a cui è dedicato il gigantesco obelisco simbolo della capitale.
È anche il luogo delle mega proteste, di “I have a dream” di Martin Luther King (che ha ovviamente il suo memorial), delle marce contro l’aborto come quella di pochi giorni fa per i cinquant’anni della sentenza Roe v Wade e delle manifestazioni contro e a favore di qualsiasi cosa. Lo stesso edificio del Capitol, che chiude la prospettiva del Mall, è diventato in un certo senso un monumento commemorativo: dopo l’assalto del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori dello sconfitto Donald Trump, è un enorme promemoria di quanto sia fragile la democrazia, anche nel paese che da più tempo di tutti nel mondo ha un governo democratico.
È infine il luogo dei monumenti ai caduti, lo spazio che insieme al vicino cimitero di Arlington ricorda il prezzo delle tante guerre che hanno combattuto gli Stati Uniti. Dal celebre e commovente memoriale del Vietnam, a quelli più formali e poco coinvolgenti dedicati alla Seconda guerra mondiale o al conflitto in Corea. L’anno prossimo aprirà il “Desert Storm and Desert Shield Memorial”, dedicato alla guerra in Iraq del 1991, mentre quelle più recenti combattute a Baghdad e Kabul restano ferite ancora troppo fresche (anche se il Pentagono lavora a un memoriale dedicato alla “Guerra al Terrorismo”).
Tra i conflitti ricordati da monumenti a Washington, ce n’è uno finito da un pezzo che non ha un memoriale: la Guerra fredda
C’è però un conflitto finito da un pezzo che non ha ancora un monumento: la Guerra fredda. Ci sono ovviamente tanti luoghi dedicati al tema dello spionaggio, anche all’interno dei musei della fondazione Smithsonian, che sul Mall sono i veri luoghi di approfondimento delle storie “raccontate” là fuori dai monumenti. Nella vicina Langley, lontano dagli sguardi dei turisti, c’è il muro con le stelle anonime che ricorda i caduti della Cia nella guerra di spie contro i sovietici. Ancora più lontano, in un grande spazio aperto tra Chicago e Milwaukee, sta venendo su un luogo della memoria dedicato ai “Veterani della Guerra fredda” voluto dal museo di storia militare della fondazione Pritzker. E qua e là ci sono pezzi del Muro di Berlino, incluso uno in California di fronte alla tomba di Ronald Reagan, che ha contribuito più di tutti a farlo cadere.
Ma la sensazione generale è che non sia ancora giunto il tempo di tirare su a Washington monumenti dedicati alla Cold War. La guerra in Ucraina non fa che rafforzare l’idea che forse quell’insolito conflitto geopolitico non sia affatto finito e abbia solo cambiato pelle.
Eppure ci sarebbe un memorial già pronto, un luogo-simbolo perfetto per ricordare il confronto tra i due blocchi che ha segnato il mondo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Oggi si chiama Auditorium Andrew Mellon, ha una facciata da tempio greco con le colonne doriche che piacevano tanto agli architetti di Washington all’inizio del secolo scorso e si affaccia su Constitution Avenue, sul lato nord del Mall. È parte di un gigantesco complesso di edifici federali uguali a tanti altri su cui nessuno getta uno sguardo: le colonne doriche del Mellon fanno solo da sfondo agli autobus turistici che ci parcheggiano davanti per scaricare flotte di ragazzi diretti dall’altra parte della strada, al Museo di storia americana dello Smithsonian.
Prima di essere dedicato a Mellon, era l’auditorium del Dipartimento di stato ed è qui che il 4 aprile 1949, con una solenne cerimonia guidata dal presidente Harry Truman, dodici paesi fondatori, tra cui l’Italia, firmarono il North Atlantic Treaty. È qui insomma che è nata la Nato.
In tempi in cui in tanti vogliono aderire alla Nato, mentre Vladimir Putin e tanti suoi estimatori anche di casa nostra la vorrebbero veder sparire, è inevitabile che ci si torni a interrogare sull’identità del Patto atlantico e dell’organizzazione che lo incarna. E ogni riflessione sull’identità, che sia quella di un’istituzione o di un’azienda, richiede di tornare alle origini, riscoprire come è cominciato tutto e perché.
“Il ciclo di nove mesi di negoziati – scrisse quel giorno l’inviato a Washington del Corriere della Sera, Ugo Stille – si è compiuto quando ventitré firme apposte in calce a un documento di dodici pagine scritte a macchina su carta speciale dai bordi dorati, e tenute assieme da un nastro tricolore bianco-rosso-azzurro, hanno consacrato ufficialmente e formalmente l’unione di trecentotrentadue milioni di persone, appartenenti a dodici nazioni, nella più grande alleanza che la storia abbia finora registrato in tempo di pace. Ed è appunto un’alleanza per mantenere la pace, come ha dichiarato il presidente Truman nel discorso che ha segnato il culmine delle manifestazioni oratorie della cerimonia”.
L’atmosfera era quella delle grandi occasioni. L’auditorium fu inondato di piante che circondavano un palco su cui sedevano gli inviati dei paesi alleati. A far gli onori di casa, elegantissimo, il segretario di stato Dean Acheson in completo grigio con cravatta blu a pallini. La Francia era rappresentata da Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Europa unita. Dall’Italia era arrivato il conte Carlo Sforza, ministro degli Esteri, affiancato dall’ambasciatore Alberto Tarchiani, che per un decennio sarà l’uomo-chiave dei rapporti tra Roma e Washington. Una coppia di protagonisti dell’antifascismo, Sforza e Tarchiani, che godeva in America di enorme rispetto per come si erano battuti in esilio per anni contro la dittatura di Mussolini. Davanti a loro, in platea, centinaia di ospiti di tutte le istituzioni americane e trecento giornalisti e fotografi arrivati da tutto il mondo.
Le colonne doriche dell’auditorium, realizzate in cemento impastato con gusci frantumati d’ostrica, rendevano perfetta l’acustica nella sala e le parole di Truman arrivarono forti e chiare a tutti. E suonano familiari anche a orecchi del Ventunesimo secolo: “Vi è chi sostiene che questo trattato è un patto aggressivo da parte delle Nazioni bagnate dall’Atlantico. Ciò è assolutamente falso. Il patto avrà un’influenza positiva non negativa sulla pace e la sua influenza sarà sentita non soltanto nella regione che esso specificamente comprende, ma in tutto il mondo. Per due volte in tempi recenti”, proseguì Truman, “le Nazioni hanno subito il micidiale colpo di aggressioni non provocate. I popoli, verso i quali i nostri governi sono responsabili, chiedono che simili fatti non si verifichino più. Noi siamo decisi a fare sì che ciò non si verifichi più”.
Come l’attuale inquilino del Cremlino, Stalin era convinto che dopo la fine della guerra i paesi capitalisti si sarebbe sfaldati, entrando in crisi
Stalin la prese malissimo. Ordinò a tutte le ambasciate sovietiche di inviare durissime proteste contro i governi che avevano firmato il Patto e al suo ministro Molotov (il Lavrov dell’epoca) di minacciare un po’ tutti. Come l’attuale inquilino del Cremlino, Stalin era convinto che dopo la fine del conflitto mondiale i paesi capitalisti si sarebbe sfaldati, entrando in crisi e perdendo qualsiasi capacità di reagire alle sue iniziative. Che emergesse una visione multilaterale e addirittura un’alleanza di tipo militare, a Mosca non lo aveva previsto nessuno. La convinzione che l’occidente fosse decadente e corrotto aveva spinto Stalin a mosse aggressive di fronte alle quali si aspettava ben poche reazioni. Come il colpo di stato dei comunisti in Cecoslovacchia – che inaugurò, con Jan Masaryk, la stagione ancora in corso delle morti misteriose volando da una finestra – e il blocco di Berlino, al quale gli americani risposero con l’inedito, gigantesco ponte aereo.
La nascita della Nato spiazzò Mosca perché Molotov e i suoi diplomatici erano degli “yes-men”. La realtà letta con le lenti dell’ideologia
Gli studi di John Lewis Gaddis a Yale, ritenuto forse il maggiore storico della Guerra fredda al mondo, hanno dimostrato quanto le scelte di Stalin siano state frutto della sindrome del capo, dell’incapacità di farsi dire dai collaboratori come stavano veramente le cose e del terrore di tutti quelli che lo circondavano nel contraddirlo. Una sindrome che, anche in questo caso, non sembra scomparsa al Cremlino. La nascita della Nato spiazzò Mosca perché Molotov e i suoi diplomatici erano rimasti degli yes-men che raccontavano una realtà letta solo attraverso le lenti dell’ideologia.
Niente lo dimostra meglio della differenza tra due personaggi-chiave di quegli anni: George Kennan e Nikolai Novikov. Il primo era un giovane diplomatico distaccato presso l’ambasciata statunitense di Mosca che nel 1946 aveva preso l’iniziativa di rispondere con una propria analisi alla domanda che circolava alla Casa Bianca in quel momento post-bellico, di fronte all’imprevedibilità sovietica: “Ma Stalin cosa vuole?”.
Il cablogramma segreto di ottomila parole che Kennan trasmise a Washington il 22 febbraio 1946 dall’ambasciata a Mosca è diventato un pezzo di storia e un testo di studio per chi fa politica estera. Kennan spiegava che a differenza di quello che pensava il Dipartimento di stato, l’intransigenza sovietica non aveva niente a che fare con le scelte dell’occidente, era tutta legata alle esigenze interne del regime stalinista. L’Urss doveva trattare il resto del mondo come un nemico perché era l’unica cosa che teneva in piedi la dittatura sanguinaria di Stalin. Inutile, per l’occidente, pensare di contrastarlo con le guerre: l’Urss andava invece gestita con pazienza e mano dura, contenendola e lasciandola dissanguare.
Le tesi di Kennan ebbero un’eco enorme a Washington e furono alla base della successiva Dottrina Truman e del Piano Marshall. La cosa che gli americani seppero solo anni dopo era che le spie russe infiltrate nei governi occidentali avevano fatto arrivare quasi in tempo reale il cablogramma di Kennan nelle mani di Stalin, che quindi sapeva cosa a Washington si pensava di lui. Per tutta risposta, il leader sovietico chiese al suo ambasciatore negli Stati Uniti, Novikov, di inviargli a sua volta un lungo telegramma di spiegazione della posizione americana. A differenza di quello di Kennan, il documento di Novikov è un esempio di tutto ciò che un diplomatico non deve fare: descriveva la realtà come Stalin voleva farsela sentir raccontare, dipingeva un’America imperialista che sognava solo il dominio mondiale e voleva spartirsi il pianeta con i britannici, parlava di un occidente sull’orlo del baratro e prefigurava divisioni e incapacità di qualsiasi alleanza tra i paesi capitalisti.
Rassicurato da queste analisi e da quelle di Molotov e dell’intelligence, come ha ricostruito Gaddis, Stalin sottovalutò il Piano Marshall e rimase poi spiazzato dalla coesione con cui l’Europa occidentale si mosse per creare la Nato. Anche di fronte all’emergere dell’indipendenza da Mosca del comunismo di Tito in Jugoslavia, il leader sovietico e i suoi avversari americani reagirono in modo opposto sulla base delle diverse strategie che stavano costruendo. Per Stalin, Tito era irrilevante e l’Urss poteva portarlo sotto il proprio ombrello quando voleva: “Mi basta muovere un mignolo e non ci sarà più Tito”, diceva ai suoi. Per gli americani, era l’ennesimo dittatore da saper gestire senza farsi troppi scrupoli: “Tito è un figlio di puttana – amava dire Acheson – ma è il ‘nostro’ figlio di puttana”.
La capacità di sintesi e di lettura del quadro geopolitico che dimostrarono gli alleati in quegli anni si tradusse in un Patto di estrema semplicità
La capacità di sintesi e di lettura del quadro geopolitico che dimostrarono gli alleati occidentali in quegli anni si tradusse in un Patto Atlantico di estrema semplicità che è sopravvissuto pressoché intatto dal 1949 a oggi. Quattordici articoli brevi e chiari, raccolti nelle dodici pagine battute a macchina (sei in inglese e sei in francese) che furono firmate nella cerimonia nell’auditorium allestito in stile un po’ pacchiano su Constitution Avenue. La trattativa per definirli era stata rapida e aveva visto i dodici governi firmatari muoversi in grande sintonia. I più celebri tra i 14 articoli sono il 4 e il 5, che definiscono le modalità che possono portare la Nato a reagire ad aggressioni, ma la natura vera del Patto è quella contenuta nell’articolo 1, che lo lega direttamente all’attività e allo statuto dell’Onu, che era nata pochi anni prima.
“Il patto del Nord Atlantico”, disse quel giorno Sforza a nome dell’Italia, prima di firmare il documento tra le colonne doriche oggi ignorate dai turisti che si recano ai musei Smithsonian, “rimarrà uno dei più nobili e più generosi avvenimenti della storia dell’umanità. A condizione che tutti i suoi membri sappiano dimostrare – nell’ambito del patto e all’infuori di esso – che la dolorosa storia dell’Europa ha dato loro l’insegnamento più alto: e cioè che nessuna nazione al mondo può sentirsi sicura della sua prosperità e della sua pace, se tutti i suoi vicini non procedono, con uguale sicurezza, verso la stessa meta della prosperità e della sicurezza”.