La polizia marcia durante la cerimonia per il 75° anniversario dell’Indipendenza del Myanmar a Naypyitaw, il 4 gennaio scorso (Ap/Aung Shine Oo) 

A due anni dal colpo di stato militare, in Myanmar sono saltate tutte le regole

Massimo Morello

Il lento oblio birmano. La dittatura della repressione e la lotta armata, Aung San Suu Kyi cancellata, e un rene venduto per duemila dollari 

Un rene è venduto per circa sette milioni di kyat, la valuta birmana. Circa 2.500 dollari. Per molti, è l’unica possibilità di sopravvivenza in un paese in cui le cronache della catastrofe ricorrono come un tempo le feste buddiste.

 

Una nuova èra è iniziata in Birmania due anni fa, il primo febbraio del 2021, quando il governo democraticamente eletto è stato deposto da un colpo di stato guidato dal generale Min Aung Hlaing. “Due anni fa abbiamo perso tutto. Tutto. Proprio tutto. Ma non ci arrenderemo mai”, dice Ghost, l’artista che si è dato il nome di fantasma. E’ in collegamento da una località in Birmania, il volto nascosto da un passamontagna, in occasione di un incontro organizzato a Bangkok.

 

Due anni fa sono state stravolte tutte le regole, anche quelle che si erano mantenute durante le dittature che si sono susseguite dal 1948, quando fu dichiarata l’indipendenza dalla Gran Bretagna. In settantacinque anni il paese è stato libero meno di venti. Quegli anni Aung San Suu Kyi, la donna che incarna la lotta per la democrazia, li ha trascorsi in gran parte agli arresti domiciliari, nella casa di famiglia sulla riva dell’Inya Lake di Yangon. Non così sotto questa nuova giunta. Anche il 4 gennaio scorso, festa dell’Indipendenza, la Signora lo ha trascorso in una cella della di un carcere di massima sicurezza di Naypyitaw, la capitale. In isolamento. Non può incontrare nessuno, a parte i suoi legali. le hanno impedito di tenere anche il suo cagnolino Taichido.

 

In quella cella potrebbe restare altri 33 anni, totale delle condanne che le sono state inflitte in una serie di grotteschi processi a porte chiuse che ricordano quelli nazisti. L’ultimo si è concluso il 30 dicembre scorso

 

Qualcuno sperava che in occasione dei festeggiamenti per il nuovo anno o nella ricorrenza dell’Indipendenza il generale Min Aung Hlaing le avrebbe concesso gli arresti domiciliari. Alcuni speravano addirittura in una riduzione della pena. Altri ancora, pochissimi, auspicavano la grazia. E’ accaduto, ma per altri 7.012 detenuti (come in altre occasioni escludendo la maggior parte dei prigionieri politici), non per lei.

 

“Finché Aung San Suu Kyi potrà in qualsiasi modo influenzare la vita politica i militari saranno condannati a perdere”, ha dichiarato, con ben più realismo, Kyee Myint, un avvocato di Yangon. “Ecco perché non la libereranno”. 

 

“Gli ucraini hanno Zelensky, i birmani non hanno più una figura simbolo che testimoni la loro causa di fronte al mondo”, dice Gwenn Robinson corrispondente di Nikkei Asia. E implicitamente dà ormai per perduta la Signora. 

   

Foto Ap, via LaPresse
      

La prigionia di Aung San Suu Kyi è anche una vendetta personale. Il generale Hlaing, infatti, non le perdona di aver rifiutato la sua offerta “di pace”. A quanto sembra, dopo la clamorosa vittoria della National League for Democracy, il partito di Aung San Suu Kyi, alle elezioni del novembre 2020, il generale avrebbe fatto alla Signora un’offerta che non doveva rifiutare. Avrebbe permesso la modifica della Costituzione affinché la Signora potesse divenire presidente della Repubblica. A condizione che lei, dopo tre anni, gli cedesse la carica. 
Il rifiuto avrebbe fatto da detonatore al colpo di stato. E Min Aung Hlaing avrebbe coinvolto lo stato maggiore del Tatmadaw, le Forze armate birmane, alimentando le paure dei generali di perdere il loro potere e di veder svanire i loro affari.

 

L’inconscio malato di un piccolo uomo il cui sogno è di autoproclamarsi presidente (la sua statura rende ancor più grottesca la sua immagine coperta da decorazioni nella parata del 4 gennaio) e gli affari sporchi di una banda di criminali hanno dato origine alla tragedia di un popolo le cui cifre, avrebbe detto Stalin, sono ormai una statistica. 

 

Il golpe ha innescato una guerra civile che ha coinvolto le milizie etniche che sin dall’indipendenza si oppongono al governo centrale. E così se le vittime “politiche” sono 2.680, quelle degli scontri tra partigiani, miliziani ed esercito regolare sono più di dieci volte tanto. I prigionieri politici sono circa 17000, compresi un centinaio di bambini utilizzati come arma di ricatto per estorcere confessioni. Anche torturando i bambini stessi. Ci sono 97 prigionieri nel braccio della morte, quattro le sentenze già eseguite. Nell’intero paese ci sono oltre un milione di profughi e sono circa 40.000 le abitazioni distrutte o bruciate dalla giunta. Non sono stati risparmiati nemmeno i luoghi sacri, monasteri o chiese cattoliche rase al suolo come l’antica chiesa dell’Assunzione nella regione di Sagaing. “Distruggere, uccidere, stuprare”. Ghost sintetizza così l’azione dei militari.

 

Proprio come accadde nella Cambogia di Pol Pot, quando la fame fece più morti delle torture e della guerra, la vera strage potrebbe derivare dalla crisi economica innescata dalla guerra civile e amplificata dal Covid. Oltre 15 milioni di persone sono già in una situazione d’insicurezza alimentare. Il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, una cifra in aumento che ha cancellato quasi un decennio di progressi, secondo la Banca mondiale. Oltre 5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria, scuole e ospedali sono praticamente collassati, la crisi sanitaria ha innescato il risorgere di tubercolosi e Hiv.

 

Un indicatore significativo è nel rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) presentato a Bangkok il 26 gennaio scorso. In Birmania la coltivazione del papavero da oppio è aumentata del 33 per cento dopo anni di decrescita iniziata nel 2014.  La “drug economy” sta diventando sempre più importante, sostenuta dai crony, i faccendieri complici del regime che intrallazzano coi signori della droga e della guerra.  

 

Una simile catastrofe non ha suscitato reazioni internazionali proporzionate. Solo recentemente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso “profonda preoccupazione” per le azioni del governo militare invitando alla cessazione delle violenze. Altrettanto vaga la condanna dei paesi dell’Asean che non possono esporsi troppo su temi quali la limitazione della democrazia o i diritti umani. Gli Stati Uniti hanno approvato il “Burma Act”, che promette al tempo stesso di stabilire rapporti con le milizie etniche e le forze di resistenza cui hanno offerto “assistenza non letale”.

 

In questo assordante silenzio dell’occidente ancor più si avverte quello di tutte le organizzazioni che erano così attive nel denunciare Aung San Suu Kyi come complice dei militari nella persecuzione dei Rohingya. Accuse che contribuirono alla delegittimazione della Signora facilitando il colpo di stato. Ora anche i Rohingya i sono usciti di scena.
Forse proprio perché hanno capito di essere sole, le forze dell’opposizione hanno deciso di fare fronte comune dichiarando di fatto uno stato di guerra contro il governo militare, seguendo la dichiarazione di Duwa Lashi La, presidente temporaneo del National Unity Government. Almeno per il momento, dunque, le Ethnic Armed Organizations (Eao) sembrano aver messo da parte gli interessi che li vedono in perenne conflitto. 

 

Anche i più fedeli sostenitori della linea gandhiana di non-violenza che ha ispirato la politica di Aung An Suu Kyi si sono convertiti alla lotta armata e alle uccisioni mirate. L’ultima, eclatante operazione è stata l’eliminazione di Than Htut, il torturatore comandante della Gestapo birmana. E così, secondo fonti del governo ombra, i militari sono progressivamente isolati e controllano solo il 17 per cento del paese.

 

Suona quasi come una perversa rivincita la sospensione dell’emissione e rinnovo dei passaporti. Perché le rimesse dei migranti finanziano la resistenza, ma soprattutto per bloccare il flusso dei cittadini che si rifugiano all’estero per sfuggire alla coscrizione o proteggere i loro patrimoni. E’ come se i militari volessero esercitare il loro potere sul corpo vivo del paese. Come se non riuscissero ad arrendersi all’idea che sono destinati alla sconfitta. Forse confidano nei rifornimenti d’armi che continuano ad arrivare dalla Russia (ultimi i caccia multiruolo Sukhoi Su-30SME) che esporta in Birmania anche le tecniche terroristiche di bombardamento contro obiettivi civili. O forse perché i monaci ultranazionalisti che li sostengono hanno celebrato la recente nascita di un elefante bianco come un segno di vittoria. Il generale Min Aung Hlaing, come i dittatori che l’hanno preceduto, è convinto che il sovrannaturale sia la fonte del potere. 

 

Per consolidare il loro potere, i militari stanno anche pensando di affidarsi alle elezioni, che potrebbero tenersi in agosto. Definirle una farsa è un eufemismo: ogni giorno sono annunciate nuove norme per garantire il risultato. La più grottesca è la richiesta di rinnegare Aung San Suu Kyi per candidarsi.

 

Ai paesi dell’Asean, però, converrebbe dichiarare le elezioni come un primo passo nell’ennesima road map verso la democrazia.  Rappresentare una legittimazione del potere. Ma sarebbe la soluzione di un problema.

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