Vylkove nel 2007 (Wikipedia)

Dove nasce il fattore umano

Danubio, chilometro zero. L'"inferno di gelo" della Venezia d'Ucraina

Adriano Sofri

In faccia all’Isola dei Serpenti, nel luogo dove era stato esiliato Ovidio, si ripercorre la strategia fallita della Russia per prendere Odessa, la perla. Il dito medio, le bombe e le domande sul futuro, se mai la guerra finirà

Quel ramo del delta del Danubio, il terzo, Kiliia, che superata la Moldova divide per un tratto l’Ucraina dalla Romania e poi, appena oltre il paese di Vylkove, diventa ucraino su ambedue le sponde e sfocia nel Mar Nero, di fronte alla famosa Isola dei Serpenti – Zmiinyi... Si trova qui il km 0 del Danubio, la cui lunghezza non viene misurata dalla sorgente, a differenza che per gli altri fiumi, ma dalla foce. Non tutti sanno... Il fatto è che io stesso non sapevo, o molto vagamente, che una parte sia pur minore del delta del Danubio, qui Dunàj, si trova in Ucraina, e che vi si affaccia una città d’acqua, Vilkovo in russo, Vylkove in ucraino, detta “la Venezia d’Ucraina”. La sua trama di 72 isole, costruite artificialmente per lo più, e i suoi 40 chilometri di canali navigabili, più che addomesticare la natura, come a Venezia, hanno inselvatichito gli umani – sia detto come un complimento. Vylkove aveva avuto più di diecimila abitanti e ne ha oggi, dopo la guerra, forse appena tremila: azzerato il turismo, vuote e chiuse tante case, trascurati i piccoli canali. Dall’aggressione russa, l’altra fonte di sussistenza principale, la pesca, è stata tagliata: il mare vietato alle barche dei pescatori e riservato a mesi di bombardamenti. Non è la prima volta che Vilkovo resta deserta di visitatori: dal 1961 al 1991 era uno dei luoghi sovietici dall’accesso interdetto ai non residenti. 

 

Vylkove ha in comune con Venezia l’origine principale della colonizzazione di un territorio così impervio: la ricerca di un riparo alla persecuzione dell’entroterra, che qui significò la fuga dalla Russia della riforma del patriarca Nikon. Tra la seconda metà del XVII secolo e la fine del XVIII, i “vecchi credenti”, i lipovani, che erano già in maggioranza pescatori sul Don e sul Dnipro, si trasferirono lungo il fiume Prut in Moldova e il Danubio in Romania e in Ucraina. Il loro arrivo, e quello dei cosacchi ucraini, coincise con la formazione del braccio della Kiliia, e vi contribuì. Vilkovo ha tre chiese, una, più barocca e vistosa, ortodossa ufficiale, due della comunità lipovana, che copre i due terzi della popolazione e, a differenza che in altre comunità, riconosce i suoi pope. Il viale principale della parte “terrestre” di Vilkovo si chiamava Lenin, si chiama della Natività di Cristo. Avevo fatto una memorabile visita alla foce del Danubio in Romania dieci anni fa, in un principio d’estate, l’epoca migliore per incontrare gli uccelli migratori e per ammirare la vegetazione. Questa volta avevo il Danubio ucraino alla portata, poco più di tre ore da Odessa – solo perché il principale ponte stradale e ferroviario fra Odessa e il porto di Ismail, Zatoka, sull’estuario del Dniester, che dimezzava la distanza, è stato distrutto dai missili russi all’inizio dell’invasione. Mi serviva una giustificazione, che non facesse passare il viaggio come meramente turistico, mentre sul versante opposto, a est e a nord di Odessa, infuriava la guerra. Potevo appigliarmi alla battaglia per l’Isola dei Serpenti, che sta di fronte a Vylkove. Per prepararmi ho letto testi scientifici sull’“antropologia anfibia” e sulla “terrestralizzazione” dei paesi d’acqua e di canali, e specialmente del Danubio, che è il fiume più fangoso d’Europa, e riempie i canali col suo eccesso di limo, impiegato a sua volta per formare gli orti e i giardini per cui Vylkove va famosa. 

  

Vylkove aveva avuto più di diecimila abitanti, oggi forse tremila: azzerato il turismo, vuote e chiuse tante case

 

Succede nelle guerre: sono il solo straniero e, con la fotografa Anna Golubovskaya, visitatore della riserva del Danubio, che in tempo di pace era la meta di famiglie da ogni parte dell’Ucraina e del resto del mondo. Dell’arcipelago alcune isole e alcuni canali sono vietati per ragioni militari, per gli altri si ottiene un permesso. Al centro turistico più grande ci aspetta Michail Zhmud, che è l’amministratore ed è un biologo, insegnava, ha cambiato vita a un certo punto, ora è un momento difficile ma tengono in piedi la baracca e i collaboratori più preziosi – uno è Igor, che ci accompagnerà. Michail è buon conoscitore di Comacchio, naturalmente. Il centro si chiama Pelican, perché i pellicani sono i più prestigiosi avventori del delta. Ora, ci dirà Igor, la mitezza degli inverni ha cominciato a persuaderne qualcuno a non migrare e farsi stanziale, ma non avrò la fortuna di vederne. Ovidio, i cui Tristia si facevano lagnosi ma avevano versi meravigliosi, descriveva la foce del Danubio – l’Istro, per lui – dov’era stato esiliato, come un inferno di gelo. “Da quando sono nel Ponto, tre volte per il freddo si è fermato l’Istro, tre volte si è fatta ghiaccio l’onda del mare Eusino... L’Istro stesso che... si mescola con molte bocche al vasto mare, quando i venti induriscono i suoi flutti cerulei gela e serpeggia al mare con le acque coperte dal ghiaccio; e là dove erano passate le navi, ora si va a piedi e l’unghia del cavallo batte le onde fatte ghiaccio dal freddo”.

 

Ovidio descriveva la foce del Danubio – l’Istro, per lui – dov’era stato esiliato, come un inferno di gelo

 

Abbiamo due itinerari, uno mattutino, con una barca più grande e lenta, orfana di comitive, attraverso il labirinto di canali, uno pomeridiano – fa buio presto – su un motoscafo dalla pancia piatta, che sbatte forte sulle onde, per andare su un’isola commovente, nel gran lago salato fra mare e fiume. È piatta e piena di insenature rotonde, su un pavimento di conchiglie intatte e sabbia fine, le più comuni bivalvi e le grandi rapane venose (credo) dalla madreperla di rosa. Fino a un paio d’anni fa l’isola era abitata periodicamente, e le sue tre o quattro case rattoppate e colorate sono ora in rovina. C’è una sorpresa: un cane bianco a chiazze nere, poco più di un cucciolo, di quelli bruttini e più cattivanti, e fa avanti e indietro correndo verso di noi sbarcati e rinculando per la diffidenza. Ci accompagna mentre percorriamo l’isola, facendoci la ronda attorno a una distanza di rispetto. Ogni tanto addenta qualcosa di non esattamente commestibile, ha già una sua magrezza. Qualcuno l’ha lasciato qui. Fa presto ad accappararsi la nostra attenzione a spese di cormorani e aironi e gabbiani che galleggiano al largo. Anna dice che bisogna portarlo indietro, Igor non ci pensa due volte, lo prende per la collottola e lui, che non vedeva l’ora, si accomoda sul fondo del motoscafo, con la sua dose di coperte addosso – siamo imbacuccati come mummie, quando il motoscafo corre il vento merita quasi le iperboli di Ovidio.

 

Il Pelican è un vasto impianto, con molte imbarcazioni in aspettativa, ha aperto per noi. Ha una rada piena di germani reali anche loro fra selvatici e domestici, e soprattutto ha un numero di gatti di statura e tempra maestosa e di cani da strapazzo, del tutto confidenziali fra loro e ansiosi di carezze e feste dall’estraneo. È la destinazione ideale per il nostro giovane Robinson, il quale si mette subito a correre su e giù per il prato e il pontile come faceva nell’isola deserta. Il problema dell’accoglienza non si pone nemmeno. Igor sa il fatto suo, e il nuovo arrivato è a casa con la borsa di studio che si è meritato. Igor è Vecchio credente – la cosa, non so bene perché, mi dà fiducia – è sulla cinquantina, ha una figlia universitaria a Kharkiv. Nel giro dei canali si mostra competente di umani, altri animali e piante: l’ambita radice di acorus calamus, in particolare, che sa trovare frugando nella vegetazione rigogliosa della sponda. Il confine fra domesticità e selvatichezza è continuamente messo in forse.

 

C’è un’isola, ci passiamo ai bordi, abitata dalle mucche selvatiche. Sanno avvicinarle solo alcune donne di Vilkovo, che ogni giorno sbarcano per mungerle. Si capisce quale pregio si riconosca a quel latte e ai suoi prodotti. C’è un passaggio chiamato il buco del cane, perché i poliziotti e i loro cani facevano lì la posta ai pescatori che rientravano con il pescato di frodo. Lungo i canali si affacciano le strutture che attiravano le fermate dei turisti, i giochi dei bambini, i pupazzi di bevitori allegri che ora traballano come ubriachi per l’abbandono. Ogni casa ha la sua barca, spesso ne ha due, una più leggera per la moglie. Le barche sono per i più l’unico modo di spostarsi. E ogni casa ha il suo garage per la barca, una rientranza su misura, le case più ricche, come quella del dentista, ce l’hanno più vistosamente privato, chiuso da una specie di saracinesca di legno intrecciato. Lungo i canali principali corre una passerella di legno sopraelevata – le maree non sono altissime, salve le inondazioni. Del limo continuamente estratto dalla pulitura dei canali sono fatti gli orti e le loro pregiate produzioni: verdure, mele verde-rosso acceso come le gote della Nadiezhda che ce le vende insieme alle grappe domestiche e soprattutto ai barattoli di kalina, la bacca rossa di viburno che fa bene per qualunque cosa – a un prezzo di liquidazione. Molte delle case sono chiuse – la maggioranza, nel centro “terrestre” del paese. In alcune donne anziane lavorano nei giardini, uomini vecchi stanno seduti ci guardano passare e rispondono al saluto – quando le persone restano sole e non ce la fanno più a remare, dice Igor, muoiono. 

 

Proprio all’Isola dei Serpenti fece la prima comparsa nella guerra ultramoderna “il fattore umano”

 
La costa di fronte, quella che è Romania e segna la differenza fra un paese in guerra e l’Unione europea in pace, ospita tuttavia l’insediamento Nato e in particolare americano più vicino alla frontiera ucraina. È la base aerea romena di Mihail Kogălniceanu (distretto di Costanza, la Tomi di Ovidio) dov’è stata dispiegata la 101esima Divisione aerotrasportata americana, una delle più scelte divisioni aeree d’assalto americane, ad appena cinque chilometri dal confine con l’Ucraina. Sono poco meno di 5 mila militari, si è appena annunciata la proroga di “almeno” 9 mesi e l’arrivo al comando di un generale a due stelle. È presente nella stessa base – “a sette minuti di volo sul Mar Nero dalla base delle forze russe in Crimea” – un contingente italiano di 150 uomini e donne dell’Aeronautica militare, almeno fino al luglio prossimo. Nello scorso ottobre, un servizio della Cbs riferiva la dichiarazione dei comandanti della Divisione secondo cui “se i combattimenti si intensificano o se c’è un attacco alla Nato, sono pronti ad attraversare il confine con l’Ucraina”.

 

A quella propaggine del territorio ucraino, priva dell’interstizio costituito a nord da Transnistria e Moldova, mirava tutta la prima fase dell’aggressione russa, tesa a chiudere dai due lati, la Crimea (occupata nel 2014) e la foce del Danubio dirimpetto all’Isola dei Serpenti, l’intera costa ucraina sul Mar Nero: da Kherson, alla foce del Dnipro, occupata senza colpo ferire per la mancata difesa dei responsabili della città, a Mykolaiv, il porto fluviale sul fiume Bug, e il porto militare di Ochakiv, l’ultima trincea prima di irrompere su Odessa e mutilare l’Ucraina del suo intero sbocco al mare. Impadronirsi di Kyiv aveva e ha un doppio pregio per l’ingordigia russa, perché è la capitale e perché è la culla della Rus’ cristiana di cui il Cremlino si pretende il solo erede. Ma la preda più ambita era – e resta – Odessa, la perla, e ai suoi lati l’intero dominio sul Mar Nero. 

 

Bisogna guardarsi dal sottovalutare la megalomania bonapartista della Russia di Putin, anche dopo averne avuto la prova dell’attacco a Kyiv in tenuta da parata. Sullo sfondo dei primi piani del Cremlino c’era molto di più: una congiunzione di complicità e fratellanze che arrivava fino alla Serbia (e al Kosovo). Anche di Zmiinyi, l’Isola dei Serpenti, dopo averla tenuta nei titoli per mesi, ci si è sbrigati a decretare che non era che uno scoglio privo di qualunque effettivo peso strategico, e solo usato simbolicamente nel gioco a rubabandiera. Non era così. Vista dall’alto, per giunta col fumo delle esplosioni che l’hanno colpita, l’Isola dei Serpenti somiglia adesso a una bistecca cotta malamente. Era stata occupata dal primo giorno dalla marina russa, addirittura con l’intervento dell’ammiraglia della flotta assistita da un pattugliatore. In quel 24 febbraio Roman Hrybov, una delle 13 guardie di confine ucraine di stanza sull’isolotto (più, nei momenti alti, 30 abitanti) aveva appena avuto il tempo di ricevere l’intimazione ad arrendersi, consultarsi brevemente con un collega (è tutto registrato), alzare il dito medio e mandare la tracotante Moskva a farsi fottere. “Nave da guerra, idi na khuy”. Vuol dire così, ma di più. 

 

Bisogna guardarsi dal sottovalutare la megalomania bonapartista della Russia di Putin

 

Così “il fattore umano” faceva la prima comparsa nella guerra ultramoderna. Il marinaio fu catturato, insieme alla minuscola guarnigione dell’isola. Si credette che fossero stati uccisi tutti. Il 1° marzo fu indetto un concorso per il francobollo commemorativo del gesto del dito e didascalia. Il 21 marzo il ministro della Difesa russo postò su Telegram l’ammonimento: “Mai far arrabbiare una nave da guerra russa!” Non aveva ancora preso bene le misure. Il 29 marzo il marinaio Hrybov e i suoi compagni furono rilasciati, in cambio di marinai russi soccorsi in mare e fatti prigionieri dagli ucraini. Il 12 aprile fu emesso il francobollo e andò a ruba. Il 13 aprile l’ammiraglia, la Moskva, fu colpita e affondata mentre si pavoneggiava di fronte a Odessa. Sembrò che a colpirla e affondarla fosse stato quel dito medio alzato, e non ci fu superficie ucraina, muro di casa o petto di passante che non inalberasse quell’immagine.   

 

Dopo, l’Isola dei Serpenti fu il teatro della dilapidazione di carne da cannone di cui i generali russi non avrebbero più smesso di dar prova. Trasportavano sull’isola decine e centinaia di militari, che una volta sbarcati erano il bersaglio facile dei tiri ormai assestati degli ucraini dalla foce del Danubio o dalla costa di Ismail. Dopo che la carneficina si era ripetuta non so quante volte rinunciarono, per loro decisione autonoma, dissero, “in segno di buona volontà”. La buona volontà li spinse la stessa notte ad attaccare coi missili il paesino di Serhiivka, due condominii, un centro ricreativo, 21 morti, due bambini. Ci andai, di militare non vidi neanche una casacca.
Fu così che persero quell’avamposto sulla costa ucraina e sull’agognata Odessa, che non ha potuto tornare a essere il paradiso degli archeologi. Quello scoglio in forma di bistecca fumante e mal cotta era emerso dal mare il giorno in cui Poseidone fu commosso dalla preghiera di Teti, che Achille, suo figlio, ricevesse una degna sepoltura, lui, colpito al tallone, da lontano, dal pavido Ettore. Storia di bruciante attualità, nel tempo dei droni “unmanned”, senza presenza umana e guidati da lontano. 

 

Vylkove è il centro abitato più vicino a Zmiinyi – una cinquantina di chilometri, poco per non far arrivare il rimbombo delle artiglierie e degli aerei e far tremare e a volte crepare finestre e muri delle case. Oggi fra gli ucraini di Vylkove c’è un sentimento nuovo di gratitudine per la Romania e la sua generosità, che in certi primi giorni accolse migliaia e migliaia di fuggiaschi – “a differenza della Bulgaria...”, aggiunge qualcuno. Era anche il paradiso dei subacquei e dei biologi marini l’Isola dei Serpenti, ma anche a loro è interdetta, e per giunta le acque sono disseminate di mine alla rinfusa, e ogni tanto una mina portata dalle correnti finisce per minacciare una spiaggia rumena o le rotte del Mar Nero. E da Vilkovo la gente si chiede come farà a riprendere il largo anche una volta che la guerra sia finita. Ma la gente si chiede soprattutto se la guerra sarà mai finita. L’esule Ovidio aveva un’opinione irreparabile degli ospiti barbari dai quali si sentiva circondato. “Anche quando vi è pace, tremano per la paura della guerra, / Questo paese o vede il nemico o lo teme se non lo vede”. Loro vedevano barbaro lui: “Io qui sono come barbaro, perché nessuno m’intende. Barbarus hic ego sum, quia non intellegor ulli”.

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