Russia ristretta

I confini di Mosca ottant'anni dopo Stalingrado

Micol Flammini

L'anniversario della vittoria che cambiò la Seconda guerra mondiale è un pretesto propagandistico per Putin. Il territorio perso e i cartelli stradali che segnano un ritorno al passato

Il 2 febbraio del 1943 i soldati sovietici stremati respinsero i nazisti e inflissero a Hitler la prima grande sconfitta. A Stalingrado consegnarono al mondo il momento di rottura, il punto di svolta da cui costruire la vittoria contro il nazismo. Sono trascorsi ottant’anni e secondo il quotidiano Kommersant ai  politici del partito Russia unita è stato chiesto di lanciarsi in confronti senza indugio tra la battaglia di Stalingrado e l’“operazione militare speciale in Ucraina”. Anche Vladimir Putin è atteso nella città che dal 1961 si chiama Volgograd, ma per l’occasione sta tirando su cartelli stradali con il pesante nome di Stalingrado. L’agenzia di stampa Ria Novosti ha mostrato un video in cui per le vie innevate veniva cambiata la segnaletica per riportare la Russia a un passato che non le appartiene. Nella battaglia di Stalingrado combattevano fianco a fianco russi e ucraini assieme a tutti gli altri popoli inglobati nell’Armata rossa, oggi, per volere del Cremlino, i soldati di Kyiv devono difendersi dall’assalto di Mosca. Secondo Russia unita “gli eventi di oggi porteranno  risultati simili alla Grande guerra patriottica, il nemico scapperà e noi ci lanceremo verso la vittoria”. Come in uno specchio deformante, i russi ora sono il nemico da respingere: Stalingrado al contrario. 

 

Dichiarando la guerra contro l’Ucraina, Putin vuole riaffermare la grandezza della Russia, ma sta ottenendo l’opposto. Non soltanto Mosca è ormai isolata, trattata come un paria dai paesi che contano, una nazione  disdegnata più che temuta. Ma anche a livello territoriale sembra non essere in grado di contenere le  conseguenze della guerra iniziata contro il  vicino che vorrebbe derubare di almeno cinque regioni: Donetsk, Luhansk, Kherson, Zaporizhzhia e la penisola di Crimea. 

 

Nel 2014, il Cremlino aveva occupato la Crimea, pensando di riappropriarsi di quello che considerava suo, di fare felice la popolazione locale, ma soprattutto il presidente Putin. La penisola ucraina era frequentata dai russi già prima dell’occupazione, i cittadini di Mosca, San Pietroburgo e altre città avevano le loro seconde case al mare, a fianco alle quali sorgevano quelle degli ucraini. Ora sono vuote, molti ucraini non vi fanno ritorno dal 2014, i russi non hanno più intenzione di andarci, la guerra fa paura, arrivarci è complicato, le acque solcate dalle navi da guerra non sono più appetibili. I russi stanno vendendo le loro case nel migliore dei casi, nel peggiore svendendo, ben consapevoli che nessuno, di questi tempi, ha voglia di stabilirsi in Crimea. Prima che una controffensiva ucraina per liberare la penisola sia partita, i cittadini di Mosca se ne stanno andando, abbandonando le loro proprietà e le loro pretese su un territorio che non gli appartiene. Mentre la Crimea si svuota, le regioni russe al confine con l’Ucraina si stanno militarizzando sempre di più. La regione di Kursk ospita una grande base militare e da quasi un anno i cittadini della zona affrontano una quotidianità stravolta, nella speranza di trasferirsi. Mal sopportano i soldati che girano per la zona in attesa di essere mandati in Ucraina, spesso ubriachi e combinando guai. Kursk, come regione abitata, si sta restringendo. 

 

A confermare questa tendenza della Russia a rimpicciolirsi, è stato il leader della Cecenia, Ramzan Kadyrov, un fedelissimo di Vladimir Putin, che nel suo ultimo video ha dichiarato che la sua regione fa parte della Russia soltanto perché ha bisogno di soldi, altrimenti sarebbe indipendente, e ha rimproverato l’occidente per non essersi fatto vedere mentre i ceceni lottavano per liberarsi di Mosca. Kadyrov guida la regione perché ha garantito a Putin che non lascerà posto a chi vuole l’indipendenza, nel frattempo si riempie di ricchezze e governa in modo ferino, ma se neppure lui sente di essere un cittadino della Federazione russa, sicuramente gli altri  ceceni non ne hanno alcuna voglia. Nell’ingordigia di strappare all’Ucraina il suo territorio, la Russia sta perdendo regioni, alcune si spopolano, altre stanno con Mosca per convenienza e coercizione, ma si sentono altrove. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)