A piedi da Francesco
Duecento chilometri per vedere il Papa in Sud Sudan, dove ci sono più kalashnikov che lavatrici
Il vescovo della diocesi di Rumbek è arrivato nella capitale a piedi, nonostante un anno e mezzo fa gli abbiano sparato alle gambe con il fucile. Nel pellegrinaggio lo hanno seguito in più di cento
Giuba, Sud Sudan. Il vescovo della diocesi di Rumbek, in Sud Sudan, è arrivato nella capitale Giuba facendo 200 chilometri a piedi, nonostante un anno e mezzo fa siano entrati in casa sua e gli abbiano sparato alle gambe con il fucile. “Non ho mai pensato di spostarmi da qui dopo l’agguato, e immagino che chi è dietro l’attacco abbia capito che le intimidazioni non funzionano”, dice al Foglio Christian Carlassare. A 44 anni, il 25 marzo 2021, è diventato il vescovo italiano più giovane del mondo: l’attentato nella sua residenza si è verificato un mese e un giorno dopo, il 26 aprile a mezzanotte.
Nel pellegrinaggio lo hanno seguito in più di cento, sotto il sole a 38 gradi, per accogliere il Papa nel suo viaggio in Sud Sudan. Ieri Francesco è atterrato in un paese dove ci sono più kalashnikov che lavatrici, che è il quinto più pericoloso del mondo, ma che è un po’ meno insicuro dopo un suo gesto del 2019 quando, a Roma, ha baciato i piedi ai due rivali della guerra civile. Il presidente Salva (che significa “Il Salvatore”) Kiir e il suo vice Riek Machar.
La democrazia in Sud Sudan funziona così: non si fanno le elezioni ma il posto di vice in ogni istituzione va al partito di opposizione, o all’etnia minoritaria. Il gesto del Papa aveva funzionato. “Qui erano rimasti stupefatti. Quell’azione costringeva le due fazioni a mettere da parte l’orgoglio che stava impedendo la pace. La reazione generale è stata: ‘Se il Papa può chinarsi a baciare i piedi di qualcuno, nessuno ha da vergognarsi nel cedere qualche cosa a un altro’”, dice al Foglio don Dante Carraro, cardiologo, direttore di Medici con l’Africa Cuamm. Dopo l’attentato erano stati i suoi dottori a raccogliere il vescovo Carlassare steso in una pozza di sangue dentro il compound della diocesi.
A Giuba, nel 2011, nella gigantesca base militare di Giada a sud del centro, sono stati ritrovati migliaia di scheletri di preti, suore, fedeli e bambini. Prima della separazione dal Sudan, Giada era il luogo in cui il governo federale, arabo e islamico, torturava i cittadini ribelli del sud. Quelli che aveva trascurato e vessato per decenni, anzi secoli, perché periferici, considerati irrilevanti e sacrificabili in quanto cristiani o animisti che parlano inglese in un paese dove la lingua del potere è l’arabo. All’inizio degli anni Duemila, migliaia di persone che erano state rinchiuse dentro la fortificazione di Giada sono sparite nel nulla. Nel 2011, l’ingresso in quei palazzi dell’orrore da parte dei militari sudsudanesi aveva anticipato di poco la grande festa dell’Indipendenza. Decine di migliaia di persone scappate all’estero per la guerra erano tornate dai paesi confinanti per partecipare al referendum: il 98,8 per cento aveva votato per la separazione dal Sudan. Nella notte tra l’8 e il 9 luglio, nella piazza centrale di Giuba, c’era un grande schermo con un countdown che teneva il conto delle ore, e poi dei minuti e dei secondi che mancavano alla libertà. E poi fuochi, palloncini colorati, donne che ballavano con i miliziani ribelli ubriachi che stavano per diventare soldati regolari di un paese neonato, il più giovane del mondo.
Con il vescovo Carlassare c’è padre Giovanni Girardi, un comboniano in Africa da cinquant’anni e in Sud Sudan da venti, quando c’era la guerra civile e i sudanesi andavano a caccia di preti: “I sudanesi avevano cacciato tutti i missionari dal paese perché non ci volevano come testimoni dei loro crimini. Mano a mano che i ribelli del sud conquistavano pezzi di territorio, ci richiamavano, avevano bisogno di noi perché ci occupassimo delle persone – di comprare le medicine, di curare le ferite, di costruire pozzi – mentre loro pensavano alla guerra”. Alcuni missionari che avevano accettato di tornare sono spariti nella base militare di Giada. In Sud Sudan il marchio indimenticabile della violenza è quello lasciato dal colonialismo arabo, non occidentale. Nell’Ottocento venivano da Khartoum a prendere gli schiavi. “Questo posto era trattato dal governo centrale come una gigantesca riserva naturale non protetta. Si veniva qui per saccheggiare il bestiame, le mucche Dinka o le zanne in avorio degli elefanti e, allo stesso modo, gli uomini. Questa terra era considerata un grande zoo in cui non si faceva distinzione tra animali e persone”. Per il vescovo Carlassare il cristianesimo locale “è più una questione identitaria che di fede, un rifugio che ha unito chi era perseguitato dalla maggioranza araba e islamica”. Però qualcosa, lentamente, succede: “Ho detto messa per uomini che hanno tre mogli, che hanno continuato a venire in chiesa nonostante negassimo loro l’eucarestia. Nella tradizione locale il matrimonio è uno scambio tra protezione e prole tra uomini e donne che non si conoscono, il sentimento è secondario o irrilevante. Eppure tra i giovani che vengono in chiesa la famiglia comincia ad acquistare un altro senso. Ho visto e ascoltato gesti di tenerezza, uomini che chiedono consigli alle compagne, ferite d’amore e amori esclusivi”.
Ieri, mentre atterrava il Papa, ci sono stati due attacchi e delle vittime al confine con l’Uganda e a nord di Rumbek, la seconda città più grande del Sud Sudan. Andando da Rumbek a Yrol, attraversando in diagonale lo stato dei Laghi, l’unica infrastruttura che si incontra in centinaia di chilometri è un ponte soprannominato “Ponte Italia” o “Ponte Bertolaso”, trasportato qui dalla Protezione civile nel 2006. Nel paese non c’è una rete elettrica e neanche un’industria, il Sud Sudan importa tutto quello che consuma perché l’assenza di infrastrutture rende troppo costoso produrre qualsiasi cosa. Nella capitale Giuba le strade asfaltate sono poche, una lunga chilometri è stata coperta di catrame negli ultimi giorni ma solo per il tratto di 600 metri che doveva percorrere la Cinquecento papale. Il sistema sanitario – in un paese dove l’età media è 19 anni e un bambino ogni dieci muore prima di compierne cinque – è interamente finanziato da un fondo occidentale. Era un fondo molto generoso, conseguenza dell’entusiasmo di Regno Unito e Stati Uniti nella fase nascente del Sud Sudan: il presidente Salva Kiir non si toglie mai il cappello da cowboy texano che gli aveva regalato George W. Bush, che lui considera il padrino del paese. Quei tempi sono finiti e la più grande preoccupazione sudsudanese oggi è che Londra e Washington – dopo aver già tagliato gli aiuti di quasi due terzi – minacciano di scendere a poco più di zero. Il governo del Sud Sudan chiederà a Francesco di aiutarli a evitare questa ipotesi.