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Una zona già martoriata. Ecco dove ha colpito il terremoto tra Turchia e Siria
L'area ospita milioni di rifugiati fuggiti nel nord-ovest per scappare dal regime siriano: le scosse si inseriscono in un quadro di povertà, precarietà e malattie
Photo by Burak Kara/Getty Images
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AP Photo/Khalil Hamra
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Foto di Erdem Sahin, via Ansa
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AP Photo/Omar Sanadiki
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Turchia meridionale. Nord-ovest della Siria. Sembra fatto apposta: il fortissimo terremoto di magnitudo 7.8 di ieri notte ha colpito una striscia di terra già consumata dalla povertà e da una guerra durata più di un decennio. Proprio lì, dove i palazzi sono crollati e le strade si sono spaccate in due, vivono milioni di rifugiati, 2,7 dei quali risiedono in campi profughi. Molti sono sfollati interni della guerra civile, fuggiti a nord, nelle zone controllate dai ribelli dell'area di Idlib, che continuano a combattere contro il regime del presidente siriano Bashar el Assad.
Oggi su queste pagine scriviamo che, nel terremoto tra Turchia e Siria, per i siriani è tutto più complicato.
Prima di tutto ci sono i segni della guerra civile: scoppiata nel 2011 a seguito della durissima repressione da parte di Assad delle proteste delle Primavere arabe, ha avuto il suo culmine nel 2015, quando il conflitto si è intensificato su tutti i fronti fino all'intervento diretto della Russia a sostegno di Assad, che ha portato a un fragilissimo cessate il fuoco nel 2020.
I segni della guerra si sono poi visti concretamente nella crisi economica che ha colpito il paese: il prodotto interno lordo della Siria si è ridotto di più della metà in dieci anni (dal 2010 al 2020). Quest'inverno i siriani bruciavano la spazzatura per riscaldarsi, razionavano le docce e rinunciavano spesso a pasti caldi. In alcune zone l'elettricità disponibile durava meno di un'ora al giorno. Le fatiscenti strutture idriche della Siria, nonché la scarsità di carburante, hanno poi condotto a un altro disastro: un'epidemia di colera che ha coinvolto circa 60 mila persone e che si è concentrata nelle zone più povere del paese, una tra tutte quella interessata dal sisma.
In questo scenario, s'inserisce la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan e i suoi interessi in Siria. Ne scrivevamo a giugno.
Quest'estate Erdogan esplicitava così le sue intenzioni: "Creeremo una zona di sicurezza di 30 chilometri ai confini meridionali. Spazzeremo via i terroristi dalle aree di Tal Rifaat e Manbij in Siria. Poi faremo lo stesso in altre aree, passo dopo passo. Vedremo allora chi sosterrà le nostre legittime richieste e chi le ostacolerà".
A novembre, aggiornando il racconto, scrivevamo che: "Il presidente Erdogan punta a creare quella che possiamo definire una 'cintura sunnita' nel nord della Siria e dell’Iraq che, partendo da ovest, dal Mediterraneo, correrebbe lungo tutta la Siria settentrionale, attraverserebbe l’Eufrate e poi il Tigri, giungendo in nord Iraq, includendo i monti di Sinjar dove vive la minoranza curda-ezida, fino al confine con l’Iran. L’intento è che questo corridoio, di circa 1.270 chilometri e profondo 30, sia amministrato da una popolazione araba-sunnita e turkmena, libero dalla presenza dei combattenti del Pkk che Ankara, Washington e Bruxelles considerano una organizzazione terroristica, e pronto ad accogliere gran parte dei circa 4 milioni di rifugiati siriani ospitati in Turchia".
In questo contesto, il disastro del terremoto impatta su un territorio in cui si esplicitano tutte le conseguenze delle politiche di Ankara nonché del regime di Bashar el Assad. E lo fa anche in un momento cruciale per la storia della Turchia, ovvero in vista delle prossime elezioni, che si terranno il 14 maggio.
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A cura di Antonia Ferri
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