Verso il consiglio europeo
Più che la concorrenza sleale, il Green deal industrial plan combatte la concorrenza Ue
Le misure proposte servono poco a impedire il rischio di migrazione delle imprese, dopo l'Inflation Reduction Act americano. Sono piuttosto strumenti di politica industriale per accelerare il processo di transizione ecologica negli stati membri, rimuovendo gli stringenti vincoli relativi che normano competizione
C’è la narrazione e ci sono i fatti. La narrazione è che il piano di allentamento delle regole sugli aiuti di stato che verrà discusso nel Consiglio europeo del 9-10 febbraio sia la necessaria risposta alla concorrenza sleale degli Stati Uniti. Gli aiuti servirebbero cioè per contrastare la delocalizzazione delle imprese europee, attratte dai cospicui sussidi americani. I fatti però – per chi ha la pazienza di leggere la Comunicazione sul Green deal industrial plan – sono alquanto diversi. Le misure proposte servono poco a impedire il rischio di migrazione delle imprese europee. Sono piuttosto strumenti di politica industriale per accelerare il processo di transizione ecologica negli stati membri, rimuovendo gli stringenti vincoli della politica di concorrenza.
Occorre anzitutto chiarire i contenuti dell’Inflation Reduction Act (Ira), il cui obiettivo è accelerare la diffusione delle nuove tecnologie e favorire la crescita dell’economia “verde” (rendendola meno dipendente dalla Cina). Si tratta di una politica, per volume delle risorse mobilitate e per le modalità di attribuzione, simile a quanto già fatto in Europa: nel solo 2021 nell’Ue sono stati erogati aiuti per 73 miliardi di euro alle fonti rinnovabili, 7 miliardi al nucleare e 19 miliardi all’efficienza energetica. Dei 369 miliardi di dollari del provvedimento americano, la maggior parte serve a finanziare impianti per la produzione di energia rinnovabile e batterie. Finora sono stati annunciati una ventina di nuovi impianti (tra cui uno dell’Enel). La decisione di investire oltreoceano, però, dipende non solo dai sussidi ma anche dalla regolamentazione meno complessa di quella europea e dai minori costi dell’energia. Una parte dei sussidi è poi riservata ai consumatori che acquistano veicoli elettrici o a idrogeno prodotti in loco o con batterie contenenti una percentuale significativa di materiali estratti negli Usa o in paesi con accordi di libero scambio. L’Ue ha chiesto di consentire ai produttori di far rientrare anche i fornitori europei. Nel frattempo, Bmw e alcuni produttori di batterie europei hanno annunciato l’intenzione di stabilire degli impianti negli Usa. Infine, l’Ira prevede sussidi anche per i proprietari che effettuano interventi di efficientamento energetico sulle abitazioni.
Nella Comunicazione sul Green deal industrial plan troviamo ben poco per contrastare la migrazione delle nostre imprese. La sezione principale riguarda la semplificazione degli aiuti per l’installazione delle energie rinnovabili e prevede il superamento dell’obbligo di procedure competitive per le tecnologie “meno mature”. Il che ovviamente non ha alcun effetto sul luogo in cui gli impianti sono realizzati, ma dà mano libera agli stati per favorire le imprese nazionali. Allo stesso modo, la maggiore flessibilità nell’adozione di tecnologie per la decarbonizzazione dell’industria non incide sul loro luogo di produzione. Altrettanto irrilevante è la proposta di incrementare la soglia di aiuti erogabili senza bisogno di notifica, oggi fissata a 200 mila euro. Se anche fosse moltiplicata per dieci, sarebbe comunque insufficiente a sostenere nuovi insediamenti industriali e finirebbe solo per garantire ai governi che possono permetterselo carta bianca nell’erogazione di aiuti. L’unica tipologia di intervento suscettibile di contrastare la “minaccia” posta dall’Ira è la proposta di adottare schemi di incentivi per l’installazione di stabilimenti di tecnologie utili alla decarbonizzazione tali da controbilanciare i sussidi offerti da paesi terzi. Ma si tratta di un’ipotesi solo tratteggiata a grandi linee. Questo tipo di misure sarebbe coerente con l’obiettivo dichiarato, ma non necessariamente sufficiente a frenare lo spostamento di impianti oltreoceano che ha anche altre cause.
Non è peraltro che l’Ue sia immune dalle politiche che rimprovera agli americani. In questi giorni, per esempio, si parla del maxi-investimento della Intel per un impianto di produzione di microchip del valore di 17-20 miliardi. Una fetta consistente di questo importo sarebbe coperta da risorse dell’Ue, grazie al cosiddetto Chips Act, mentre un’altra quota resterebbe a carico del paese di destinazione (Italia o Germania). Insomma, non nascondiamoci dietro foglie di fico. Non ci sono buoni e cattivi. Stati Uniti e Ue perseguono analoghe politiche industriali per accelerare il processo di transizione ecologica. L’unica differenza è che noi dovremmo ora affievolire la legislazione sugli aiuti di stato che costituisce un unicum ed è uno dei maggiori successi del processo di unificazione europea. Siamo sicuri di volerlo fare? Attenzione a ciò che si desidera, perché potremmo ottenerlo.
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