l'intervista
Ritratto del popolo russo, ingabbiato in se stesso. Parla M. Stepanova
Dalle scelte linguistiche associate all'imperialismo al nazismo, definito dalla Russia solo come "l'opposto del bene". Ma cos'è il bene, nella storia dell'Urss e dopo? Quando le stesse azioni sono prima giuste e poi sbagliate, a seconda della convenienza. La ricerca del significato dell'essere russi
Berlino. Abbiamo incontrato Marija Stepanova in una diafana mattina invernale nella caffetteria del Wissenschaftkolleg zu Berlin. Stepanova ha ottenuto i maggiori premi di poesia e letteratura europei e russi e in Italia è pubblicata da Bompiani: lo scorso settembre è uscita la raccolta “La guerra delle bestie e degli animali” (traduzione di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti) e nel 2020 il personal essay “Memoria della Memoria” (traduzione di Emanuela Bonacorsi), che racconta la storia della sua famiglia attraverso il XX secolo. Stepanova dirige il sito culturale colta.ru che, per le sue posizioni da sempre critiche nei confronti del Cremlino, è stato bandito dalla Federazione russa nel repulisti generale dei media indipendenti dopo lo scoppio della guerra in Ucraina.
Il Wissenschaftkolleg appartiene al ristrettissimo club di istituti di ricerca teorica fondati sul modello dell’Institute for advanced studies di Princeton e ha sede in una bellissima villa della Gründerzeit sulla riva del laghetto di Halensee a Grunewald. Stepanova è fellow del Wissenschaftkolleg. Tra i fellows degli ultimi anni c’è anche lo storico ucraino Andrii Portnov che nel 2014, all’indomani dell’occupazione della Crimea da parte della Federazione Russa, ha pubblicato su colta.ru un articolo sul riconoscimento della sovranità dell’Ucraina e che, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è tornato suo malgrado attuale.
Nell’articolo, che Stepanova ricorda benissimo, Portnov sostiene che il riconoscimento della sovranità dell’Ucraina passa anche attraverso l’uso consapevole della lingua e fa l’esempio dell’espressione na Ukraine (in Ucraina), che i russi usano da secoli e che viene tutt’ora usata dai media russi statali, ma che identifica l’Ucraina come un semplice territorio e che è stata sostituita nei media russi indipendenti (ormai attivi solo fuori dai confini della Federazione Russa) da v Ukraine, espressione che invece riconosce il paese come uno stato sovrano.
Preferire v Ukraine al posto di na Ukraine può nascondere un capriccio grammaticale o può essere visto come una delle caratteristiche coloniali della lingua russa. “Anche prima che la guerra del 2014 iniziasse la questione na Ukraine – v Ukraine era un argomento doloroso”. Dice Stepanova. “Se la tua scelta di parole grammaticalmente corretta ferisce qualcuno, è il momento di ripensare la tua grammatica. Non dobbiamo stare con la lingua russa, ma con quelli che la parlano. Non mi riferisco solo all’Ucraina: nella storia di qualsiasi potenza coloniale o postcoloniale come la Russia ci sono lingue che sono state soppresse o ignorate. È ora di ascoltarle. Se le nostre regole linguistiche sono considerate opprimenti devono essere modificate: è un modo per gli ucraini e i bielorussi di rivendicare se stessi e per noi è un’opportunità per cambiarci”.
Caratteristiche coloniali non le ha solo il russo. “No. Esiste una correlazione tra una lingua e il suo passato coloniale. Lo definisco uno schema militare all’interno del corpo della lingua. Nel russo è molto visibile nella letteratura, per esempio nell’opera più importante della letteratura russa medievale, Il canto della schiera di Igor’, tanto bella che alcuni la considerano un apocrifo del XVII secolo, anche se, molto probabilmente, è autentica. È un poema militare, che fonde l’immaginario cristiano e quello pagano e racconta di Igor’ Svjatoslavic, principe della cittadina di Novhorod-Siverskyj”, in Ucraina settentrionale, vicino al confine con la Federazione russa.
“Con il suo piccolo esercito Igor’ attacca i poloviciani”, popolazione di origine turca allora stanziata nei territori a nord del Mar Nero “e dopo molte battaglie è sconfitto. I suoi soldati sono uccisi e Igor’ finisce prigioniero, ma poi riesce a evadere. Il canto si chiude con il suo ritorno non a Novhorod-Siverskyj, ma a Kyiv, che è un luogo unificante ed è considerata la madre delle città russe. L’autore trasforma una storia di fallimento e disperazione in un’immagine gloriosa di ritorno e trionfo militare. A seconda di come la descrivi, la perdita diventa guadagno, la sconfitta vittoria. Quando leggi il poema, dipende da te da che parte stare. L’ambiguità di pensiero de Il canto della schiera di Igor’ è un modello nella letteratura russa”.
Quest’ambiguità si riflette anche nel modo in cui l’Unione sovietica pensava se stessa e allo stesso modo fa la Federazione russa: “Nel XX secolo dovevi conoscere a memoria la linea del Partito e ripetere la storia nella versione approvata dallo stato. Se lo stato la rivedeva, dovevi cambiarla. Dovevi allo stesso tempo dimenticare e ricordare, ed entrambe le cose erano necessarie per la tua sopravvivenza. Dopo il collasso dell’Unione sovietica sono stati pubblicati moltissimi titoli di ricerca storica per il grande pubblico. Era una situazione paradossale, perché vivevamo in uno stato che diventava sempre più opprimente, con i media indipendenti che venivano bloccati, ma allo stesso tempo avevamo una certa libertà di parola quando si trattava di pubblicazioni non giornalistiche, come ricerca storica e letteratura”.
Per Stepanova nella Federazione russa non è comunque stato raggiunto un consenso nel giudizio storico: “Ciò che è generalmente approvato è che nella grande guerra patriottica, nome con cui i russi chiamano la Seconda guerra mondiale, “i nazisti erano i cattivi e noi agivamo dalla parte del bene, ma nella storia russa non c’è una narrazione condivisa da tutti. Anche la figura di Pietro il Grande è ancora selvaggiamente controversa: c’è chi ha sostenuto la sua decisione di occidentalizzare la Russia e chi ha detto che avevamo una mentalità diversa e che sarebbe stata migliore un’evoluzione naturale invece delle sue rivoluzionarie riforme. È una questione dolorosa e se ne discute ancora. Per non parlare della rivoluzione del 1917: ci sono ancora persone che stanno dalla parte dei Bianchi e persone che stanno da quella dei Rossi”.
Non esiste una versione della storia che soddisfi tutti, "i nazisti sono durati dodici anni, l’Unione sovietica settanta. In Germania potevi essere carnefice, vittima o spettatore passivo. Nessun’altra possibilità. Per ogni persona che partecipava, il ruolo era chiaramente definito, ma durante i settant’anni di Unione sovietica si passava da un ruolo all’altro: potevi essere carnefice, poi vittima, poi spettatore passivo e poi di nuovo carnefice e di nuovo vittima. Questa giostra di ruoli ha finito per rendere tutte le persone simultaneamente vittime e carnefici. Per questo noi russi siamo ambigui riguardo alla storia: tutti sono stati coinvolti in questo vergognoso processo di uccidere l’altro e salvare se stessi. La storia russa è un territorio di fantasmi che non se ne vanno. Abbiamo questa sensazione speciale per la grande guerra patriottica, perché questo è l’unico punto nella nostra storia in cui tutti o quasi sono d’accordo: è stato terribile, è stato incredibilmente difficile e abbiamo vinto e abbiamo aiutato salvare il mondo. Questa narrazione è l’unica che definisce la nazione russa e lo stato russo, ma ora viene abusata da Putin, che la usa come fondamento della sua agenda”.
Uno slogan apparso nella Federazione russa qualche anno fa diceva: možem povtorit’ (possiamo farlo ancora). Allora nessuno poteva immaginare cosa volesse dire, lo capiamo oggi però. “Prima della guerra in Ucraina non significava niente. Era uno slogan superficiale che diceva che siamo ancora lo stesso grande e potente paese capace di difendersi da qualsiasi nemico. La grande guerra patriottica è stata presentata dai media statali come una narrazione di gloriosa vittoria, non di sofferenza, resistenza e poi vittoria. La parte tragica, quella della sofferenza e della sconfitta, è stata soppressa e la parte della vittoria e dell’ingresso nelle città straniere è stata gonfiata come un pallone. Hanno deciso che devono ripeterlo e hanno un fondamento morale, perché è stato già fatto negli anni Quaranta. Questo è quello che Putin vuole, questo è il suo obiettivo principale. Potrebbe non ammetterlo, potrebbe anche non pensarlo, ma l’idea principale dietro questa guerra non è l’opposizione Russia – Ucraina o Russia – occidente, è lo scontro dei secoli. Ciò che Putin vuole è trascinarci tutti indietro nel XX secolo. È spaventoso come questo tentativo di far tornare indietro l’orologio funzioni, perché la guerra in Ucraina, in un certo senso, ci ha portato a rivivere nel XX secolo. Dobbiamo resistere non solo sostenendo l’Ucraina, ma anche moralmente, per non ricadere in questo modello di pensiero arcaico e barbaro”.
Uno degli obiettivi dichiarati della guerra era quello di denazificare l’Ucraina. In Europa il termine “nazista” evoca soprattutto la Shoah, “in Russia significa semplicemente ‘cattivo’ e non contiene nessun riferimento alla Shoah. Ai tempi sovietici tutto era bianco o nero e chiaramente definito. Quando si giocava in cortile, si giocava alla guerra: c’eravamo ‘noi’ e c’erano i fascisti. Nella mente russa, il nazismo è qualcosa di totalmente indefinito associato al male. Non si tratta di scelte politiche, non è nazionalismo, né antisemitismo. Questo rende le cose più facili, perché quando chiami qualcuno nazista non hai bisogno di dimostrare il tuo punto, lo dici e basta. Sono nata nel 1972, erano passati meno di trent’anni dalla guerra, e quando andavo a scuola i veterani venivano in classe a raccontare la loro storie. Si parlava delle vittime della grande guerra patriottica, ma nessuno specificava le diverse tipologie di vittime. A Babyn Jar”, fossato vicino Kyiv dove tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono massacrati circa trentaquattromila ebrei, “c’era un memoriale che commemorava le vittime senza dire che erano ebree. Perché erano ebrei e non avevano nazionalità”.
Nell’Unione sovietica le nazionalità non russe erano riconosciute, mentre quella russa si confondeva con l’Unione sovietica. “Cosa ti definisce russo? Come dovresti descriverti se sei così grande e se sei ovunque? Non hai idea, nessuna spiegazione e nessuna voglia di essere russo. Ti era permesso essere ucraino, tataro o bielorusso, ma in un modo altamente ideologico e paralizzato. Quello che ti definiva russo non è mai stato chiarito. Le altre nazionalità si definiscono localmente usando la Russia come esempio negativo. Vogliono essere il più diverse possibile da noi. Noi non abbiamo nessun esempio, negativo o positivo. È difficile rinnegare noi stessi, scappare da noi stessi. Questo è un problema enorme: morale, geografico, storico, filosofico. Non c’è da stupirsi che in Russia la società civile non funzioni”.