Cosa contiene la lista di richieste che l'Ucraina ha mandato a Israele

Micol Flammini

Un generale iraniano è andato in Russia a parlare di droni, mentre Gerusalemme pianifica la visita a Kyiv del ministro degli Esteri 

L’isolamento di Mosca finisce a Teheran, che tra vari partner internazionali e tra quelli su cui poteva contare il Cremlino prima dell’inizio della guerra è tra i più bisognosi. L’aiuto finora fornito dall’Iran alla Russia è stato documentato, i frammenti di droni iraniani sono stati trovati in Ucraina, gli aerei russi sono stati visti atterrare a Teheran e ora funzionari americani hanno raccontato al Wall Street Journal che russi e iraniani hanno intenzione di costruire una fabbrica di armi a Elabuga, nella repubblica autonoma russa del Tatarstan. L’obiettivo è produrre seimila droni  e progettarli in modo che siano più resistenti e volino più lontano grazie a un motore più potente. L’investimento ammonta a un miliardo di dollari. Si tratterebbe di una linea di produzione congiunta che intensifica il legame e la cooperazione tra le due nazioni. Una delegazione iraniana guidata dal generale Abdollah Mehrabi sarebbe già andata a visitare il futuro sito di produzione e gli americani stanno cercando di valutare quanto il nuovo drone che Mosca e Teheran vorrebbero produrre potrebbe cambiare la guerra per l’Ucraina, e in che tempi. Una delle ragioni che spinge l’Iran a costruire fuori le sue armi è la possibilità che i nuovi siti vengano scoperti da Israele, che parallelamente sta intensificando le sue relazioni con l’Ucraina. 

 

Una visita del ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen è prevista a Kyiv questa settimana in occasione della riapertura dell’ambasciata di Gerusalemme. Si tratterebbe di un viaggio inedito perché finora nessuno del governo di IIsraele era andato in Ucraina. Kyiv attende il ministro con una lista di richieste, tra le quali un sostegno pubblico all’integrità territoriale dell’Ucraina e al piano di pace in dieci punti condiviso dal presidente Volodymyr Zelensky a Bali durante il G20. Altre richieste includono un prestito da cinquecento milioni di dollari, un sostegno medico ai soldati ucraini, la possibilità di curarli in Israele e la collaborazione nello sviluppo della tecnologia antimissilistica e di un sistema di allerta precoce per prevenire i danni sui civili dei bombardamenti.  L’arrivo del governo di Benjamin Netanyahu era stato accolto con il timore che Israele scegliesse una facile convivenza con la Russia a detrimento dell’Ucraina, rompendo i buoni propositi dell’ex premier Lapid che però, messo davanti alla richiesta di un prestito di cinquecento milioni, come quella avanzata al ministro Cohen, avrebbe rifiutato. L’attuale governo è pronto a offrire una parte della somma, ma sta ancora prendendo le misure tra il sostegno all’Ucraina e le difficoltà che Israele affronta con i suoi vicini per i  quali la Russia ha un ruolo importante. Una delle prime azioni di Cohen appena nominato ministro fu quella di telefonare al suo omologo russo, Sergei Lavrov, con il quale Lapid aveva tagliato ogni contatto: il gesto  non era stata accolto in modo positivo dall’Ucraina, ma  non è stato il segnale di una nuova postura filorussa da parte di Israele. In realtà, telefonate a parte, non sono stati molti i cambiamenti e il governo di Netanyahu continua sulla stessa linea di Lapid, che aveva rotto invece con la timidezza e la riluttanza  del precedente premier, Naftali Bennett. 

 

Era stato Zelensky all’inizio del conflitto a evocare un possibile ruolo di mediatore per Israele ma Bennett si era   dimostrato alquanto restio, facendo fatica anche a condannare l’invasione. A inizio marzo aveva intrapreso un viaggio a Mosca per parlare con Vladimir Putin e, dopo essere scomparso dalla vita pubblica per qualche mese,  questa settimana ha rilasciato un’intervista riguardo a quella missione. Ha raccontato di aver chiesto a Putin di dargli la sua parola che non avrebbe fatto del male a Zelensky e, dopo averla ottenuta, lasciato il capo del Cremlino nelle sue stanze, di aver chiamato il presidente ucraino per rassicurarlo. Zelensky si sarebbe fidato a tal punto da essere uscito per la prima volta dal suo nascondiglio e da girare un video in cui diceva di non temere per la sua vita. La ricostruzione non è piaciuta a Kyiv. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)