Lapresse

La Francia fra storia e futuro

Pensioni e non solo. Il destino di Macron in una settimana

Giuliano Ferrara

Métro, boulot, dodo. In una Francia pigra e rivoluzionaria c’è in ballo questa settimana tutta la parabola di Macron. Ci si gioca il fenomeno politico europeo più interessante e nuovo, più controverso e combattuto

In Francia non è una novità né una stranezza il trauma delle lotte sociali paralizzanti, del blocco del paese a causa delle scelte economiche e fiscali, delle riforme di società, e non è raro vedere in azione il segno distruttivo della violenza contro il potere costituito in nome di un potere costituente radicato nella storia della Rivoluzione, fondatrice degli ideali repubblicani. Ci risiamo. Questa settimana è la settimana della battaglia campale, all’Assemblea nazionale senza una maggioranza precostituita e nel paese con le mobilitazioni generali che procedono da oltre un mese, a Parigi e nell’immensa periferia che si sente precarizzata e dimenticata: oggetto della contesa l’ultimo capitolo, quello macroniano 2.0, della saga ventennale della riforma delle pensioni intesa come una scelta di vita e di modello politico più che come una necessità di sostenibilità del sistema finanziario pubblico.

 

In teoria le cose sono semplici o semplificabili con stereotipi e cliché, statistiche comparative in movimento sui media come piovesse. Si deve decidere di un innalzamento non così sperticato, a paragone della situazione tedesca o italiana, dell’età legale per la pensione. E dei regimi speciali, tra lavori pesanti da tutelare e diffusi privilegi corporativi da difendere o abbandonare. Ma la grande metafora riguarda il chi siamo e che cosa vogliamo, l’eterna lotta ai ricchi e liberali in nome del paese d’en bas, il paese profondo della sofferenza e dell’ineguaglianza. Ai francesi lavorare non piace, lavorano parecchio in realtà, come dicono le cifre sulla produttività, nonostante le lunghe vacanze ben disseminate nel calendario, ma non amano rappresentarsi come faticoni della vita, come frenetici attivisti del produrre e del fare, preferiscono il celebre savoir vivre e dannano proverbialmente lo stakanovismo con l’espressione “métro, boulot, dodo” (prendi la metro, lavori come un ossesso e poi torni a letto). 

 

Uno storico americano sul New York Times ha sottilmente analizzato i differenti sensi dei due termini francesi per la pigrizia, paresse e oisiveté, partendo da Montaigne e dal suo celebre ritiro da trentenne, mitico come la sua torre d’avorio e di libri e come la sua introspezione metafisica, e dal meno famoso ma significativo saggio del genero di Marx, Paul Lafargue, intitolato appunto “Le droit à la paresse”. Ma sono insigni bellurie e arte dell’ironia applicate al sentito dire, alla realtà percepita, sebbene ci sia un fondo di verità ideologica. Sta di fatto che in molti si domandano se si sia di fronte al rischio di una riedizione del fenomeno parossistico dei gilet gialli, che però erano una rivolta spontanea antitasse ai crocicchi delle strade sviluppatasi con l’occupazione ripetuta e insurrezionista dei grandi boulevard parigini, mentre il movimento sindacalizzato di funzionari, operai, artigiani, insegnanti, infermieri, impiegati e quadri, si sviluppa adesso secondo i tracciati storici, la sfilata disciplinata tra la Bastiglia e la Place de la République. Il fondo della questione è però quello di sempre. Toccò a Alain Juppé, liberale travestito da gollista all’epoca in cui il gollismo era maggioritario, tocca ora a Macron, liberale senza travestimenti e riformista che ha pagato l’astio francese contro il capitalismo, e la fedeltà allo stato chioccia, con la perdita della maggioranza assoluta in Parlamento e con una tenace tendenza all’impopolarità.

 

L’economista Daniel Cohen nota che per quanto i dati effettivi parlino di un’economia generale in ripresa, dati positivi per tutti, “con l’inflazione, la guerra e l’ecoansietà, sembra addirittura indecente dire che le cose vanno bene”. E il Monde titola che “Macron fa fatica con le buone notizie”. L’ottimismo razionale e il pragmatismo non sono il forte della Francia; lì si riserva alla ragione la funzione di grimaldello che scardina le certezze tradizionali sotto ogni regime politico e si pratica il feroce, cupo pessimismo riassunto così bene da Jean Cocteau con l’espressione secondo cui “i francesi sono degli italiani sempre di cattivo umore” (chi scrive che da noi si poltrisce e da loro si lotta non ha forse appreso il senso delle due diverse antropologie latine d’Europa o non lo conosce). 

 

Detto questo, è in ballo in questa settimana tutta la parabola o la traiettoria di Macron e del fenomeno politico europeo più interessante e nuovo, più controverso e combattuto. Chirac e Juppé, e poi dopo di loro Sarkozy si erano provati a atteggiarsi da riformatori liberali che volevano far lavorare di più i compatrioti, Hollande aveva mescolato demagogia e realismo riformatore, subendo l’offensiva dei socialisti Bobo (rivelatore anche l’acronimo paresseux di bourgeois bohémien): tutti si sono schiantati su sé stessi. Macron ebbe la sorte di reinventare come marcia, come movimento, come novità, come rivoluzione il tratto liberale e riformatore dei suoi programmi, ma è stato condannato a parere come il presidente dei ricchi, e la riforma delle pensioni, per quanto già abbondantemente emendata e edulcorata, con la destra gollista che abbandona gli spalti della cura finanziaria pubblica e tratta i suoi voti decisivi in cambio di consenso popolare, è come sempre in bilico. Passasse senza uno sconquasso generalizzato, anche in un suo brandello, sarebbe una novità dirimente. Al fondo c’è la convergenza di fattori di società che l’ideologia anticapitalista e antiliberale nutre di polvere esplosiva. La scuola, l’università, il settore immenso dei servizi pubblici alla salute e alla cultura fanno della Francia un superstato e una supersocietà che si reggono su sé stessi. Tocca un pilastro pubblico e viene giù tutto. Infatti il settore privato non è interessato dalla riforma e non partecipa alla battaglia.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.