Il reportage
Sulle sponde del fiume Ibar, dove kosovari e serbi si fissano negli occhi
Nei mesi scorsi le cronache internazionali sono tornate a occuparsi di Kosovo dopo la stretta annunciata da Kurti sulle targhe serbe e le forti proteste che ne sono seguite. Provocazioni, speranze europee e interferenze russe e cinesi: perché non esiste un Donbas con la Serbia
Kosovska Mitrovica. “Sono venuto nella parte albanese solamente una volta, anche se non me la ricordo: era il mio battesimo”, racconta al Foglio un ragazzo di etnia serba di Kosovska Mitrovica. La città del nord del Kosovo è tagliata in due dal fiume Ibar. A sud gli albanesi (che la chiamano Mitrovicë), a nord la minoranza serba, unite da un ponte sorvegliato giorno e notte dagli uomini della Kfor, la missione internazionale guidata dalla Nato che vede protagonisti anche i Carabinieri italiani. Nella parte albanese, a maggioranza islamica, si respira la presenza europea e internazionale. Fast food e negozi occidentali si alternano a statue e manifesti celebrativi dell’Uçk, il movimento di liberazione albanese in cui militò l’ex presidente kosovaro Hashim Thaçi, sotto processo all’Aia per crimini di guerra. Qui si paga in euro, come nel resto del Kosovo. Oltre il fiume invece la moneta è il dinaro serbo, sono onnipresenti le bandiere serbe o russe e sono parecchie anche le “Zeta” putiniane sui muri, diventate il simbolo dell’attacco contro Kyiv. Un cassonetto dell’immondizia è stato imbrattato con la scritta “Ukraine”.
In realtà, la divisione non è perfetta: un cimitero albanese sorge per esempio nel lato serbo, mentre a sud, a poche centinaia di metri dalla moschea più importante della città, c’è una chiesa ortodossa. Il contraltare dei monumenti ai partigiani albanesi è Lazar Hrebeljanovicć, cui è dedicata un’enorme statua a nord dell’Ibar. Knez (principe) Lazar guidò i serbi contro gli ottomani islamici nella battaglia di Kosovo Polje del 1389, un evento che a noi sembra lontanissimo ma che per i serbi è ancora vivo. Lazar è santo per la Chiesa ortodossa, la sua tomba è posta nel tempio di San Sava a Belgrado e nelle bancarelle della capitale serba si vendono le magliette con la sua immagine accanto a quelle con la “Zeta”, la faccia di Putin o la scritta “Kosovo je Srbija” (il Kosovo è Serbia). In Kosovo però i serbi non sono solo a nord. A Štrpce (in albanese Shtërpcë), comune nel sud dove è forte la presenza della minoranza, il 6 gennaio (vigilia del Natale Ortodosso) un bambino di etnia serba è stato colpito da un colpo di arma da fuoco sparato da un militare albanese. Il bambino è sopravvissuto, ma il giorno dopo le sue immagini sono rimbalzate tra le varie chat dei serbi, accompagnando tristemente le discussioni del pranzo di Natale ortodosso.
Ogni cosa qui ha due versioni. I serbi sostengono per esempio che quel bambino sia stato colpito perché “colpevole” di portare con sé i tradizionali badnjak (i rami che per tradizione si bruciano in un grande falò a Natale). Un albanese mi ha invece mostrato dal suo smartphone le foto di un uomo accerchiato da una folla (che sarebbe composta da serbi). Stando al suo racconto, il militare spaventato avrebbe esploso un colpo in aria e uno a terra che, rimbalzando, avrebbe colpito il piccolo. Non è l’unico episodio di cronaca controverso in questa prima parte dell’anno. A Leposavic (in albanese Leposaviq), comune del nord Kosovo quasi totalmente abitato da serbi, il 23 gennaio la polizia kosovara (Rosu) ha sparato a due uomini a bordo di un’automobile, ferendone uno. Per la polizia, i due non avrebbero rispettato l’alt, mettendo a rischio gli agenti. Per i serbi, l’ennesimo tentativo di intimidazione. Dopo entrambi questi episodi, la minoranza è scesa a protestare nella parte a nord di Kosovska Mitrovica, sotto la sede del Sns, il partito del presidente Aleksandar Vucic, chiedendo alla Rosu di andarsene dalle loro zone e attaccando anche il presidente serbo.
I serbi del Kosovo si sentono infatti abbandonati da Belgrado. Ai minimi termini sono anche i rapporti con Pristina (la cui autorità non viene riconosciuta) e con il presidente Albin Kurti. Il governo kosovaro sta intraprendendo una serie di azioni volte ad affermare il proprio potere anche nella parte più vicina al confine nord con la Serbia, a oggi una zona semi-franca. Per esempio, l’anno scorso ha annunciato una stretta sulle targhe emesse da tempo da Belgrado, scatenando un crescendo di proteste, fatto di blocchi stradali, dimissioni in blocco dei rappresentanti delle istituzioni e barricate. Durante la manifestazione del 28 gennaio a Kosovska Mitrovica, il giornale Danas ha riportato che uno degli oratori, Nebojša Jovic (Movimento per la Difesa del Kosovo), ha notato molte defezioni rispetto alla protesta dell’8 gennaio, accusando i “servizi” e attaccando anche la Srpske liste, il partito della minoranza serba visto da molti come estensione kosovara del potere di Vucic. “Se vai contro la Srpske liste di fatto non esisti”, denuncia un giovane serbo-kosovaro poi emigrato, mentre una coetanea parla di “regno del terrore esercitato dai delegati del partito di Vucic, che non riconoscono alcuna opposizione e muovono i fili dentro la nostra comunità”. Secondo molti, la Srpske liste avrebbe costretto i rappresentanti della minoranza serba a dimettersi in occasione delle tensioni dei mesi scorsi. Altri ancora (parlando in generale del clima che si respira nel nord Kosovo) parlano di pesanti ritorsioni contro i serbi non abbastanza fedeli alla linea dura. Inoltre, nell’area criminali serbi e albanesi in realtà cooperano bene, pronti ad accantonare ogni divergenza etnico-linguistica in nome del bene comune (il loro, s’intende). Negli anni sarebbero arrivati anche personaggi ambigui da altri paesi, come la Russia. Nel nord Kosovo poi è stata attuata una politica di “ripopolamento” serbo da parte di Belgrado, mediante abitazioni regalate e incentivi monetari. Un progetto ha riguardato per esempio la costruzione di trecento case a Zvecan. Che si tratti di riportare chi emigrò per colpa della guerra o di una “colonizzazione” serba per aumentare la pressione politica serba è ovviamente oggetto di discussione.
In tutto questo scenario, nei mesi scorsi le cronache internazionali sono tornate a occuparsi di Kosovo dopo la stretta annunciata da Kurti sulle targhe serbe e le forti proteste che ne sono seguite, sfociate in barricate a nord del paese. Non stupisce quindi se un ragazzo serbo afferma che “oggi la guerra è uno scenario possibile”, anche se un’altra ragazza interpellata ritiene il conflitto “un’ipotesi non realistica per ora”. Il paragone più immediato che potrebbe sorgere è quello con il Donbas prima dell’invasione russa, che però non regge: innanzitutto, perché il Kosovo è senz’altro un tema politico caldo per i serbi, ma è davvero complesso pensare a carri armati serbi che attraversano il confine, come hanno fatto dagli omologhi russi. A oggi, sembra invece più probabile pensare che entrambi i paesi si ritrovino tra una decina d’anni nell’Unione europea. In secondo luogo, qui è presente un grosso contingente internazionale, la Kfor, finora capace di arrestare sul nascere quelle scaramucce che potrebbero fare da detonatore.
A volte però non basta. Nel marzo 2004 si verificarono dei violentissimi scontri tra le due fazioni con un bilancio finale di 11 albanesi e 8 serbi uccisi, oltre a 900 feriti e circa 50 mila persone coinvolte. I serbi, che videro 29 edifici religiosi devastati, parlano espressamente di “pogrom”: porta ancora i segni dell’assalto l’unica chiesa ortodossa nella parte albanese di Kosovska Mitrovica. Un serbo mi mostra le foto scattate allora, nelle quali si vedono i soldati inermi di fronte alla folla inferocita. “Fummo ingenui e stupidi a cadere in alcune provocazioni. Anche se ci furono più morti tra noi che tra i serbi ci incolpiamo ancora adesso per quanto accadde”, confida un albanese di Kosovska Mitrovica che, ricordando quell’episodio, parla di spie infiltrate per fomentare le due fazioni. “Quello del 2004 è lo scenario che si vuole scongiurare a ogni costo”, dichiara Alessandro Politi, una lunga esperienza in Kosovo e oggi direttore della Nato Defense College Foundation, aggiungendo: “Allora l’obiettivo era impossessarsi di proprietà private e cacciare il maggior numero possibile di serbofoni a sud dell’Ibar. Adesso ne sono rimasti talmente pochi che non servirebbe. Come dicono i briefing della Kfor “la situazione è stabile, ma fragile””.
Il tema poi è anche politico: “Allo stato attuale fomentare degli scontri non converrebbe a nessuno, tantomeno a Kurti, che subirebbe un duro colpo in termini di credibilità internazionale e interna. Dubito infatti che gli altri partiti nella coalizione di governo sarebbero d’accordo”. Di recente, uno spiraglio si è aperto con la discussione di un accordo franco-tedesco sulle relazioni tra i due paesi, che qualcuno ha passato al giornale serbo Danas. Basandosi sul testo pubblicato (sul quale ogni dubbio è però legittimo), l’accordo porterebbe a un netto passo avanti nelle relazioni tra i due paesi. Da un lato, ci sarebbe un riconoscimento “de facto” di Belgrado verso Pristina. Dall’altro, la garanzia di un adeguato livello di autonomia per i serbi in Kosovo (seppur non citando l’Associazione dei comuni serbi cara a Vucic) e la tutela della chiesa serba-ortodossa, che in Kosovo ha due monasteri patrimonio dell’Unesco: a Gračanica e Dečani. Qui però la politica internazionale si mischia, tra l’altro, con le diatribe interne al governo tedesco: “C’è frattura netta tra Scholz e Baerbock (ministra degli esteri tedesca dei Verdi, ndr) che impedisce ai tedeschi di perseguire una strategia unitaria e decisa”, sottolinea ancora Politi. “Ed è su questo che contano Vucic e Kurti per mantenere lo status quo, che conviene a entrambi per conservare i benefici, anche economici, che derivano da questa situazione”.
Sull’area ci sono poi gli interessi russi e cinesi: i primi sono gli ingombranti amici dei serbi, uniti dalla comune religione ortodossa e da un rapporto secolare, anche se Vucic in questi anni ha spesso cercato di incastrare e alternare, a convenienza, il ruolo dell’europeista a quello di amico di Mosca. La Cina invece ha investito parecchio nell’area, per esempio finanziando la ricostruzione delle infrastrutture serbe o puntando sulle miniere del paese, con pesanti danni ambientali. Nel sostegno alle istanze serbe sul Kosovo (dichiaratosi indipendente nel 2008 e riconosciuto da circa metà delle nazioni), Pechino rafforza poi anche le proprie posizioni verso il separatismo taiwanese. In questo grande scacchiere, gli interessi dei kosovari finiscono quindi per fare la parte dei pedoni, i primi a essere sacrificati nell’ottica di un disegno più grande.