24 febbraio 2022 - 24 febbraio 2023

Vladimir Putin, il torturatore

Paola Peduzzi

Stanislav Aseyev è stato prigioniero di un campo di concentramento russo nel Donbas negli anni in cui Putin è rimasto impunito. Le ossa rotte, la paura, la vergogna e il dovere di un sopravvissuto

La regola di Izolyatsia, un campo di concentramento e di torture nel Donbas gestito dai russi, prevede che “quando si apre la porta, ognuno debba alzarsi, infilarsi una borsa o un sacchetto in testa,  mettere le mani dietro la schiena, piegarsi verso il muro e rimanere così, fino a che la porta si richiude – dice Stanislav Aseyev, giornalista e scrittore ucraino – Il rumore dell’apertura delle porte genera un riflesso condizionato, che obbliga prima di tutto ad alzarsi e a infilarsi in testa qualcosa, perché se non si ha il tempo di farlo, le botte sono certe. Nel seminterrato di Izolyatsia, avevamo alcune bottigliette di plastica con dentro l’acqua: una di queste era leggermente ripiegata verso l’interno ed era stata raddrizzata con la pressione dell’acqua. Maneggiandola, produceva un suono che era simile a quello dell’apertura della serratura metallica delle porte. Molti di noi, sentendo quel rumore, si sono alzati, si sono infilati in fretta il sacchetto in testa, hanno messo le mani dietro la schiena e si sono girati verso il muro. Era soltanto una bottiglietta di plastica”.

 

Stanislav Aseyev era un giovane giornalista proveniente da Makiïvka, la cittadina nel Donbas dove un attacco ucraino ha fatto una strage di reclute russe la notte di capodanno, quando nel 2014 arrivarono gli “omini verdi” di Vladimir Putin, si misero a capo del cosiddetto movimento filorusso dell’est ucraino e crearono le repubbliche autonome di Donetsk e Luhansk. Prima di allora il Donbas era ancora conosciuto come un posto in cui si trovava lavoro, gli stipendi erano buoni, si scendeva a sud e c’era il mare. Poi è diventata per volere di Mosca una terra contesa e violenta, impoverita dalla volontà distruttrice di Putin, e il luogo delle prigioni. Aseyev, che allora aveva ventisei anni, si dotò di uno pseudonimo – Stas Vasin – e iniziò a raccontare il Donbas occupato, dispaccio dopo dispaccio, poi raccolti nel libro “In Isolation: Dispatches from Occupied Donbas”. L’11 maggio del 2017, a causa di quei dispacci, fu catturato dai russi, tenuto per 48 giorni nel seminterrato del “kontora”, una prigione del cosiddetto ministero della Sicurezza della sedicente repubblica del Donetsk, e poi trasferito a Izolyatsia, un moderno campo di concentramento che si trova al numero 3 di Svitlyi Shliakh, il sentiero luminoso della propaganda sovietica, che in inglese è tradotta con “Paradise street”. Lì ha trascorso i primi tre giorni, dal 28 al 30 giugno, in una cella normale, poi è stato trasferito nel seminterrato: avrebbe dovuto trascorrerci il mese di luglio, ma è rimasto fino al 31 ottobre del 2019. Il racconto di questi 875 giorni è “The Torture Camp on Paradise Street”, un libro che si fa fatica a leggere tanto è crudo e bestiale, e che è stato dolorosissimo da scrivere. 

 

Quando parliamo della necessità di documentare l’orrore russo in Ucraina, quando ci ripetiamo speranzosi che Putin dovrà assumersi la responsabilità e pagare per i crimini contro l’umanità che commette, penso al dolore di Aseyev, all’urgenza che sente di raccontare i dettagli più crudeli e umilianti, perché solo così possiamo (forse) capire di che cosa sono capaci i russi, e mi chiedo quanto gli possa costare questa testimonianza, se ogni volta sente il male e la vergogna e la paura, se ricordare è rivivere tutto e se questa documentazione necessaria è un ultimo, infinito strazio. “Sono diventato ostaggio del mio libro – dice Aseyev – La maggior parte della mia ritrovata libertà di fatto la passo a raccontare la mia prigionia, a ogni traduzione devo ricominciare con l’Izolyatsia da zero. Ma per me è un dovere, e fa parte della mia lotta contro il male, contro il ‘mondo russo’ in generale e Izolyatsia in particolare”. Prende delle precauzioni, Aseyev, se deve ricordare Izolyatsia lo fa solo in ucraino, dice che in inglese non riesce a parlare di cose tanto personali, e forse intende dire: non costringetemi allo sforzo di trovare termini e sinonimi in un’altra lingua, è già tutto abbastanza difficile così. 

 

 


Di fronte ad Aseyev, la decisione politica di lasciare impunito Putin nel 2014 e l’ignoranza con cui allora e per molto tempo ancora abbiamo liquidato il popolo ucraino come una succursale riottosa (corrotta e che si sparava sui piedi) del grande mondo russo diventano sangue che si mischia alle sue ossa rotte, alle sue cicatrici, agli stupri che ha subito da parte dei russi, al suo sguardo che dice: il compito più difficile è sopravvivere quando non vuoi più vivere. Il “metodo Putin”, al di là di teorie, ispirazioni, convinzioni e ambizioni, si riduce al disprezzo assoluto per l’umanità, a piegare con la brutalità quel che non si può convincere, a distruggere quel che non si può conquistare e a spezzare ossa, coscienze, consapevolezze e vite. Aseyev allarga il putinismo al “mondo russo” perché ha conosciuto in quelle celle la sua capillare bestialità: “Il popolo russo è schiavo, e questa non è una metafora o un’immagine: uso questo termine in senso puramente psicologico. La caratteristica principale di questo stato è che le tue aspettative sociali sono minime o nulle. La tua vita è semplicemente ciò che hai a portata di mano, che puoi raggiungere qui e ora – i bisogni primari. Di conseguenza, la seconda caratteristica è che ti manca la proiezione verso il futuro, perché per questa servono delle aspettative. Dal punto di vista politico, un contratto sociale di questo tipo non deve essere esplicito, altrimenti la sua violazione potrebbe portare a una ribellione. Guarda: né la corruzione totale delle autorità russe e dello stesso Putin, né il misero tenore di vita della popolazione russa, né le perdite sul fronte della guerra in Ucraina, né la mobilitazione arrivata fino alle università e alle carceri hanno portato a disordini in Russia. Nulla. Per cambiare qualcosa, bisognerebbe soddisfare i bisogni fondamentali della maggioranza degli schiavi: finché questo non avverrà, sono scettico sulla possibilità di una rivolta in Russia”.

 


In ogni parte dell’Ucraina liberata dall’occupazione dei russi (anche quando è stata breve) sono state trovate camere di tortura. I sopravvissuti hanno raccontato “le procedure di ammissione” a questi palazzi – scuole, asili, case – adibiti alla tortura: secondo un report delle Nazioni Unite pubblicato in autunno, tali procedure comprendevano botte reiterate, soffocamenti, attacchi da parte dei cani, finte esecuzioni, violenze sessuali. Molti di loro, i sopravvissuti, hanno perso buona parte del loro peso a causa della fame, delle malattie e dell’assenza di qualsiasi regola igienica di base. Avevano sempre il volto coperto da un cappuccio, le mani legate strette e spesso lo scotch sugli occhi: luce, bagni, docce o carta igienica non c’erano quasi mai. I corpi, soprattutto i corpi delle donne prigioniere, sono stati umiliati in tutti i modi possibili, con gli stupri o con passeggiate nude nei corridoi, a uso e consumo soltanto dei russi perché gli altri prigionieri avevano gli occhi coperti. I rumori delle porte aperte e chiuse – quel rumore da bottiglietta di plastica schiacciata – si confondevano con le urla dei torturati. Sui muri di queste prigioni improvvisate sono rimasti i nomi dei battaglioni russi passati e quelli degli “scomparsi”, quando ai sopravvissuti è stato possibile prenderne nota. Questa documentazione in bilico tra la vita e la morte è il cuore del libro di Aseyev, la cui storia ha un’aggravante in più: si è svolta negli anni in cui consideravamo il conflitto in Ucraina “una guerra a bassa intensità” e in cui Putin negava la presenza stessa dei suoi uomini in territorio ucraino – e il resto del mondo, credendogli o anche non credendogli, lo considerava un interlocutore e ascoltava le sue pretese. Aseyev dice che “del Donbas l’Europa non ha capito molto e non lo fa nemmeno adesso. E’ una regione con una storia complessa, e complesse sono le persone che lo abitano: per capirne le sfumature è necessario immergersi in profondità, cosa che non è sempre possibile nemmeno per gli ucraini. Piuttosto, è cambiata la percezione generale dell’Ucraina, che nella coscienza dell’occidente ora è finalmente separata dalla ‘grande Russia’, culturalmente, nazionalmente e mentalmente. Ci sono naturalmente delle somiglianze, ma diminuiscono”. I cuori e le menti degli ucraini stavano già andando in direzione opposta rispetto alla Russia, Putin ha cercato di riprenderli con la forza senza riuscirci e ora s’accanisce con la tortura e la violenza su quella che considera un’ingratitudine. Per questo il confine tra libertà e prigionia, che nel nostro dibattito da salotti e cancellerie europee si sostanzia nelle cosiddette cessioni territoriali e in ipotesi illusorie di negoziato, ritorna urgente nelle parole di Aseyev. “Inevitabilità è il termine che mi sembra sintetizzi bene il tutto – dice – Quando sei prigioniero l’inevitabilità è che la tua vita e la tua morte sono scelte di altri, non dipendono da te. Quando sei fuori di lì, di inevitabile c’è soltanto la tua libertà totale, la libertà di ogni uomo, che si traduce in responsabilità, esperienza e comprensione delle esperienze altrui”. 

 

Non c’è traccia di rassegnazione né di vittimismo nelle parole di Aseyev, che quando gli chiedo il suo pensiero sull’anno passato e su quello che arriva dice soltanto: “vittoria”; che racconta come questo suo libro sia utilizzato dalle forze ucraine come strumento per comprendere il comportamento umano quando si è prigionieri, un comportamento “che si sviluppa in bilico tra la vittima e l’eroe – spiega – e non sempre i militari comprendono che cos’è un interrogatorio o una tortura per un civile”; che è curioso di vedere come viene messo in scena il suo libro in un teatro di Stoccolma, in questi giorni. L’urgenza e la necessità della sua testimonianza hanno il sopravvento su ogni cosa, “molte persone sono impegnate a documentare i crimini di guerra della Russia in Ucraina: tutti sanno e capiscono ogni cosa – dice – Nel corso delle due guerre cecene sono stati registrati più di un milione di episodi di crimini di guerra. Da allora sono passati vent’anni e le condanne sono state zero. Abbiamo bisogno di cambiamenti radicali nella giustizia internazionale su questi crimini, ed è quello che faccio, girando l’Europa e gli Stati Uniti con il mio Justice Initiative Fund”. Arriverà anche in Italia probabilmente, dove il suo libro è in traduzione: ricomincerà da zero il racconto di Izolyatsia, di Paradise Street, delle bottigliette d’acqua, di Palych, il capo del campo di concentramento “senza il quale questo posto non sarebbe stato come è stato” poi finito anche lui in una cella secondo quei rovesciamenti di fortuna che spesso accadono a chi esegue gli ordini di un dittatore, del pensiero del suicidio che, per quanto possa suonare assurdo, è l’unico modo per sopravvivere alla tortura, del momento che lo ha spezzato, cioè un giro a volto scoperto per la sua Makiïvka che pure non aveva mai amato. Ricomincerà perché è questa la sua battaglia contro Putin il torturatore, lui che è vittima, testimone, sopravvissuto: un ucraino di trentatré anni che racconta il Donbas.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi