24 febbraio 2022 - 24 febbraio 2023
Volodymyr Zelensky, il migliore
Si può essere stati sovietici, parlare russo e diventare europei. Questo è il sogno che il presidente ucraino ha portato a Kyiv e che Putin ha pensato, sbagliandosi, di poter distruggere
Quando, un anno fa, nelle war room occidentali si scommetteva quanti minuti sarebbe durato Volodymyr Zelensky sotto le bombe russe, lo scetticismo nei suoi confronti si basava fondamentalmente sul suo mestiere precedente: per tanti politici ed esperti il presidente ucraino rimaneva ancora “il comico”. Chi in buona fede gli proponeva una fuga da quella che sembrava una fine certa aveva sottovalutato però un aspetto degli uomini da palcoscenico: nessun attore rinuncerebbe mai al ruolo della sua vita. Zelensky rispose con la famosa battuta “Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio”, ed entrò direttamente nel mito.
A rivederlo oggi, il film di un anno di guerra è pieno di colpi di scena, momenti commuoventi e inquadrature diventate storiche nel momento in cui accadevano. Zelensky che scende per strada davanti al suo ufficio, sulla Bankova, in una capitale oscurata e assediata, per girare con il telefonino in compagnia di tutta la leadership del paese – presidente del Parlamento e del governo compresi, un bersaglio unico – il messaggio “my tut, vsi tut”, noi siamo qui, siamo tutti qui, non ce ne andiamo, facciamo un selfie per farvi vedere che non abbiamo paura. Zelensky nelle trincee di Bakhmut e Kharkiv, e sulle vie della Kherson liberata, a portata di missile russo. Zelensky che si fa intervistare da David Letterman in una stazione della metropolitana di Kyiv, al riparo dai raid aerei, per raccontare che il suo sogno dopo la guerra è andare al mare a bersi una birra. Zelensky che chiede “wings for our freedom” a Westminster, con quella sua nuova voce rauca che è stata spezzata in maniera irriconoscibile dalla guerra. In patria, dopo un anno di bombe, sangue, buio e freddo ha il 94 per cento dei consensi, all’estero è una superstar globale, con i politici che litigano per una cena con lui, e l’entusiasmo che suscita quando passa per Washington, Londra e Bruxelles ricorda quasi quello di un’icona del rock. Il suo volto viene stampato sulle t-shirt, la sua felpa “I’m Ukrainian” va a ruba, e il colore Pantone della moda dell’Ucraina in guerra è il verde Zelensky (che poi in ucraino significa appunto “verde”). E’ un presidente, un comandante in capo, un’icona, è l’uomo più amato e più minacciato del mondo, e quando compie 45 anni, il 25 gennaio scorso, gli ucraini sui social gli regalano un titolo che vale più di un Nobel e di un Oscar insieme, “naikrashiy”, il migliore.
La storia di Zelensky era però diventata il più grande spettacolo del mondo ancora prima della guerra, quando, il 21 aprile 2019, il figlio di una famiglia ebraica di una città di provincia ucraina è stato eletto presidente, partendo dal nulla, o meglio, partendo da “comico”. Chi all’epoca, in Ucraina e in occidente, lo aveva bollato come “populista”, paragonandolo a un Grillo postsovietico, si era fatto completamente scappare la rivoluzione che l’attore e produttore più di successo dell’Ucraina aveva sceneggiato e interpretato. La sconfitta clamorosa che aveva inflitto a politici istituzionali di lungo corso era certamente anche il sintomo di una crisi, ma era anche il frutto di una straordinaria operazione politica, in cui Zelensky e il suo team avevano ribaltato gli schemi della politica classica: invece di prendere un politico e trasformarlo in personaggio, aveva candidato alla presidenza il personaggio che aveva interpretato, nella sua serie “Servo del popolo”, un presidente per caso che combatte la corruzione e la burocrazia. Il leader più moderno di questo inizio di secolo aveva capito perfettamente come il mondo globale e mediatico di oggi si governi con le narrazioni e non con i cannoni. La terza stagione della serie – tre puntate trasmesse alla vigilia del primo turno del voto, il più lungo e avvincente spot elettorale mai prodotto – raccontava un’Ucraina del futuro che all’epoca era sembrata così utopica da fare quasi ridere: ricchissima, pacifica, tecnologica, giovane e globale, e ovviamente europea a pieno titolo.
Un sogno, che un paese per decenni diviso ha votato con un incredibile 73 per cento. E che ha fatto sognare anche la Russia: uno dei motivi per cui Vladimir Putin voleva morta a tutti i costi l’Ucraina di Zelensky era proprio quel giovane presidente che fino a pochi anni prima conduceva il varietà di Capodanno alla tv di Mosca, insieme al comico russo Maksim Galkin (che oggi è in esilio, incriminato in patria per il grido “Slava Ukraini” dal palco, mentre molti gli profetizzano un futuro di “Zelensky russo”). E’ proprio con Zelensky che l’Ucraina si è compiuta definitivamente come quella “anti Russia” – per usare la terminologia putiniana – che metteva in crisi il cuore di tenebra dell’ex impero sovietico, rappresentando un’alternativa democratica ed europea alla nostalgia risentita dalla quale la dittatura di Mosca attingeva la sua legittimazione. Era l’antidoto a quella che molti, nello spazio postsovietico, percepivano ancora come una condanna a ripetere la storia, e il cambio generazionale che Zelensky ha rappresentato è diventato visibile a tutto il mondo con la guerra, con un governo democratico di quarantenni che parlano inglese a organizzare la resistenza contro l’invasione di un regime di settantenni che ripetono i cliché della propaganda sovietica. Paradossalmente, la serie tv più popolare in Russia, “Svaty”, è stata prodotta dal presidente ucraino: il suo nome oggi viene cancellato dai titoli, ma per molti spettatori russi la sua elezione è stata una specie di “uno dei nostri ragazzi ce l’ha fatta”, a diventare presidente e ad avvicinare il suo paese a quell’Europa dalla quale Mosca si stava allontanando sempre di più. Si poteva essere stati sovietici, parlare russo e diventare europei: era il sogno che Zelensky aveva portato a Kyiv e che Putin voleva distruggere.
Ora sembra quasi impossibile ricordare che Zelensky era stato eletto come il presidente di pace, pronto a dialogare con Vladimir Putin e sospettato dai suoi avversari di essere troppo condiscendente verso il Cremlino, e che il suo predecessore Petro Poroshenko – l’oligarca costretto a infilarsi la mimetica per difendere il Donbas dall’invasione russa nel 2014 – era stato sconfitto insieme al suo slogan “Esercito, fede, lingua”, respinto all’epoca dagli elettori come troppo bellicoso e conservatore. Oggi, gli ucraini imbracciano i fucili, si rifiutano di parlare russo e cacciano dal tempio del monastero delle Grotte di Kyiv i religiosi ortodossi rimasti fedeli a Mosca, in una profezia che si è avverata al contrario: paradossalmente, è stata la guerra a realizzare il sogno di una Ucraina che entrava in Europa e che si sedeva da pari al tavolo delle nazioni occidentali. Il momento in cui Zelensky pronuncia “Slava Ukraini” al Parlamento europeo e si morde le labbra per non piangere quando l’emiciclo gli risponde in coro “Heroyam slava” non poteva essere inventato da nessuna sceneggiatura, ma è parte di quel sogno che sembrava impossibile quando gli elettori avevano votato un comico che avrebbe guarito gli abitanti del più grande e più povero paese europeo da un complesso di inferiorità postcoloniale.
Il sentimento di sudditanza (anche culturale) verso Mosca è stato incenerito sul Maidan, e nelle trincee del Donbas, la subordinazione verso l’occidente è stata distrutta da quel “non ho bisogno di un passaggio, ma di munizioni”. Il presidente con la felpa si ribella, critica, incalza e sprona i suoi alleati occidentali, nonostante la sopravvivenza degli ucraini sia appesa al loro sostegno e alle loro armi: un anno dopo, è l’Ucraina a guidare la coalizione antiputiniana, non più soltanto un campo di battaglia e una vittima, ma un partner e un modello, e quando gli americani annunciano che copieranno il modello di e-government introdotto dai giovanissimi geni digitali chiamati da Zelensky a Kyiv è una rivoluzione che ribalta decenni di stereotipi sul “paese delle badanti”. O il “paese della corruzione”, tormentone preferito di Donald Trump, sfuggito a una procedura di impeachment per l’Ukrainagate che pochi si ricordano oggi essere stata la prima volta di Zelensky sulle prime pagine internazionali, riuscendo a uscire indenne dalla tenaglia che minacciava di schiacciarlo come danno collaterale nello scontro tra repubblicani e democratici.
Zelensky non è mai stato un presidente per caso, e se è stato proprio nel suo mandato che la Russia ha deciso di giocarsi tutto pur di distruggere l’Ucraina è forse proprio perché il suo modello, ideale e idealista, la metteva in crisi. Tempi lontani, come è lontano il volto pulito da bravo ragazzo del Ze-presidente degli esordi da quello scavato e cupo del Ze-comandante in capo. Quello che non è cambiato è la sua capacità di essere un simbolo, produrre parole d’ordine, tessere dei sogni. E’ il suo genio comunicativo ad averne fatto l’uomo “most wanted” dai russi, e i suoi appelli serali girati con il telefonino – tanto criticati in tempi di pace dai giornalisti ucraini che si vedevano estromessi da un presidente populista che cercava un dialogo diretto con il suo popolo, bypassando le élite – sono già nei manuali di storia accanto agli appelli radio di Churchill e Roosevelt. E’ stato saggio, dicono i suoi estimatori a Kyiv, ad aver lasciato mano libera ai militari, concentrandosi su quello che sa fare meglio: creare una narrazione da offrire ai suoi combattenti e all’opinione pubblica internazionale. Ha costruito il sogno della resistenza e della vittoria, nel quale si mischiano miti antichi e moderni, linguaggio alto e pop, ideali europei e retaggi sovietici: è sua la proprietà del mito della “guerra patriottica” della nazione che si erge contro l’invasore, che Putin ha invano cercato di privatizzare, della resistenza partigiana e dell’unità nazionale, della strage di Bucha che rievoca la memoria di Babyn Yar e abbina a quel ricordo atroce proprio i russi che urlano agli “ucronazisti”. Ogni giorno della guerra, Zelensky ha inventato l’Ucraina insieme agli ucraini: il suo mito è inscindibile da quello del suo popolo, dalle bandiere azzurre e gialle che hanno riempito tutto il mondo, dai soldati che entrano nelle città liberate ballando e postano su TikTok video di gattini randagi recuperati nelle macerie alternati a quelli di carri armati russi fatti saltare dai Javelin, dai bambini che fanno raccolte fondi per i droni, dagli uomini e le donne d’acciaio di Azovstal, dai volontari che ricostruiscono le case di Bucha. E’ uno sforzo collettivo incredibile che trasforma il dolore in speranza, usando perfino l’Antonov-225, l’aereo più grande del mondo, elefantiaco lascito del gigantismo sovietico, distrutto in battaglia il primo giorno di guerra per diventare il simbolo della rinascita nazionale, grazie anche al suo nome così evocativo, Mriya, il sogno.
Un sogno che si è realizzato, anche se a un prezzo terribile: l’Ucraina è candidata a entrare nell’Ue, è un membro di fatto della Nato, è popolare e ammirata, un “brand” che ha colorato di azzurro e giallo quel mondo che un anno fa faticava a individuarla sulla cartina geografica. E se parlamenti e festival cinematografici si contendono un discorso di Zelensky è anche per partecipare al sogno. Sentirsi dire parole fondamentali. Libertà. Coraggio. Resistenza. Democrazia. Parole alle quali la guerra che lui conduce ha restituito un senso primordiale anche in occidente. Che risvegliano il sogno della vittoria del bene sul male. Che rendono Volodymyr Zelensky pericolosamente eroe, molto più di un presidente e di un comandante in capo, così come il suo avversario russo è diventato una incarnazione del “cattivo” molto più grande della sua stazza di un dittatore invecchiato male. Un giorno, la sua incredibile storia verrà raccontata in film interpretati da attori che rincorrerrano l’Oscar per aver impersonato un attore diventato presidente diventato storia. Intanto nella notte di Capodanno, mentre tutta l’Ucraina piange guardando il videomessaggio del presidente, scritto appositamente per diventare un momento di catarsi nazionale, un comico del collettivo di Zelensky “Kvartal 95” lo impersona in uno sketch ispirato a una delle sue poche gaffe, quella sulla first lady Olena che non gli prepara la colazione: un modo irriverente per riportare “il migliore”, un mito talmente grande da rischiare di diventare un monumento in vita, a una dimensione umana.