Ursula von der Leyen e Rishi Sunak (Lapresse)

Promesse non mantenute

Dopo la Brexit, il Regno Unito non riesce più a compensare i sussidi europei

Laura Loguercio

A tre anni dal divorzio dall'Ue, il governo britannico non è in grado di rimpiazzare i fondi di Bruxelles, che dal 2014 al 2020 sono stati quasi 11 miliardi di euro. Un guaio per le università, particolarmente esposte al taglio delle risorse

Londra. La maschera della Brexit è caduta, così dopo mesi di scioperi e instabilità politica, migliaia di enti e associazioni in tutto il Regno Unito si stanno ora preparando a fare i conti anche con l’esaurimento dei fondi ricevuti per anni dall’Ue, e guardano sconfortati ai tentativi del governo britannico di rimpiazzarli. Tra il 2014 e il 2020, il Regno Unito ha ricevuto 10,8 miliardi di euro dall’Unione europea – circa 1,5 miliardi all’anno – tramite i  “fondi strutturali”, gli stanziamenti pensati per finanziare progetti di lungo termine volti a favorire l’integrazione e lo sviluppo degli stati membri in vari settori. Dopo il divorzio dall’Ue, tre anni fa, Londra si ritrova esclusa dal prossimo ciclo di bilancio, relativo al periodo 2021-2027, e in seguito all’esaurimento dei fondi già allocati non riceverà più alcun sussidio.

 

Già nel suo programma per le elezioni del 2019, il Partito conservatore al tempo guidato da Boris Johnson aveva promesso di attivare lo Shared Prosperity Fund (Spf), un fondo che avrebbe rimpiazzato gli “ultraburocratici fondi strutturali europei” e garantito al Regno sussidi “pari almeno allo stesso importo” ricevuto in passato. Secondo Westminster, i nuovi sussidi, liberi dalle imposizioni di Bruxelles, potranno essere utilizzati per diversi scopi, tutti piuttosto vaghi: dal miglioramento degli “standard di vita” nel Regno Unito al potenziamento dei servizi pubblici, passando per la “ricostruzione di un senso di comunità, orgoglio locale e appartenenza” alle varie comunità del paese. I dettagli dell’Spf sono stati stabiliti più di tre anni dopo, nell’aprile del 2022, quando il governo di Boris Johnson ha annunciato che il fondo avrebbe avuto uno stanziamento totale di 2,6 miliardi di sterline da distribuire in modo graduale, con 400 milioni nel periodo 2022-2023, 700 milioni nel 2023-24 e infine 1,5 miliardi di sterline nel 2024-25. Secondo le stime del governo, quindi, i fondi europei verranno sì compensati, ma solo tra diversi anni. 

 

Nonostante l’attivazione dell’Spf e le promesse, secondo alcuni esponenti politici in Galles e Scozia soprattutto, l’uscita dall’Ue passerà sui loro bilanci come un colpo di spugna, cancellando stanziamenti per milioni di sterline. Il Galles, per esempio, dovrebbe ricevere 585 milioni di sterline dall’Spf, una cifra inferiore di oltre un miliardo rispetto ai sussidi europei. In Scozia, il governo guidato dalla dimissionaria Nicola Sturgeon ha dichiarato che la nazione perderà oltre 300 milioni di sterline in seguito alla sostituzione dei fondi europei con l’Spf, passando dai 549 milioni potenzialmente previsti dai fondi europei ai 212 assegnati dal governo britannico

 

Le università sono particolarmente esposte alle conseguenze dell’imminente taglio dei fondi strutturali europei. “Siamo preoccupati, abbiamo vari progetti a rischio”, dice al Foglio Kevin Sullivan, portavoce dell’Università pubblica di Swansea, in Galles. Pochi mesi fa, il vicerettore Paul Boyle ha affermato che l’ateneo si trova “sull’orlo di un precipizio”, con oltre 240 posti di lavoro altamente specializzati in bilico nella sola università di Swansea e 60 progetti di ricerca a rischio in tutto il Galles, che nel periodo 2014-2020 è stato il principale beneficiario dei fondi europei in relazione alla popolazione. Secondo Sullivan, non soltanto i fondi diminuiranno, ma le nuove modalità con cui saranno allocati i sussidi renderanno difficile avviare progetti collaborativi su scala regionale, nazionale e internazionale. “I fondi dell’Spf vengono distribuiti alle singole autorità locali. In questo modo, avviare iniziative multilaterali è molto più complicato”, ha spiegato il portavoce.

 

Le preoccupazioni sono condivise anche dal Wales Council for Voluntary Action (Wcva), l’associazione che riunisce le società del terzo settore in Galles. “I fondi del nuovo programma nazionale saranno versati a 22 comunità locali, e questo potrebbe creare problemi e inefficienze nella gestione dei progetti”, spiega Lilla Farkas, responsabile dei progetti del terzo settore per il Wcva. “Molte delle associazioni più piccole hanno già completato i progetti finanziati da Bruxelles, mentre l’Spf non è ancora disponibile, e questa discrepanza sta causando esuberi nel personale”, spiega Farkas, sottolineando che il programma del governo britannico arriva al massimo al 2025: “La timeline del governo per la realizzazione dei progetti è molto breve, mentre con i fondi strutturali, che duravano sette anni, potevamo programmare sul lungo termine”.

 

A metà gennaio l’organizzazione Universities UK, di cui fanno parte 140 atenei nel Regno Unito, ha criticato l’Spf affermando che questo non fornisce alcuna certezza riguardo al futuro dei progetti di ricerca e che le procedure per richiedere i nuovi fondi sono state “tese, confusionarie, complicate e con tempistiche troppo ridotte”. Il National Council for Voluntary Organisations (Ncvo), l’associazione nazionale di riferimento per il mondo del volontariato, ha aggiunto che anche quando l’Spf diventerà pienamente operativo il suo sostegno sarà inferiore rispetto ai precedenti stanziamenti, e i progetti attivabili non si concentreranno su occupazione e formazione almeno fino al 2024/2025. Così, ancora una volta, le promesse del governo britannico sulla realtà post Brexit sono smentite dai fatti.