l'intervista
I nuovi fronti della sicurezza nazionale. Parla l'ex consigliere di Bush
Non più solo una questione militare. Un modello da aggiornare in vista delle “minacce ibride”, che oggi sono di natura economica, tecnologica, commerciale. Gli Stati Uniti, l’Italia, la Cina: l’analisi di Elliott Abrams
Elliott Abrams parla con l’esperienza di uno che ha contribuito a fare la politica estera di almeno tre presidenti, Ronald Reagan, George W. Bush e Donald Trump, è stato Rappresentante speciale degli Usa per l’Iran, ma soprattutto ha servito come vice consigliere per la Sicurezza nazionale per la Global Democracy Strategy nel primo mandato di Bush. Oggi segue le cose del mondo fuori dalla mischia ma senza distacco nel Council of Foreing Relations. Lo spunto della conversazione è il lungo viaggio diplomatico in Europa e in Russia compiuto due settimane fa dal capo della diplomazia del Partito comunista cinese, Wang Yi, e in particolare la sua missione italiana.
E’ noto che Wang Yi sia venuto in Italia per scongiurare l’ipotesi che il governo Meloni, come si ipotizza da più parti, voglia ritirarsi dal Memorandum sulla Via della seta. Cosa dovrebbe fare l’Italia in proposito dal suo punto di vista?
Credo che si debba rivalutare il valore e il significato di quell’accordo per quello che riguarda l’Italia. Non si dovrebbe rinnovarlo solo per fare contenti i cinesi. La Cina in questa fase attraversa difficoltà economiche, la sua disponibilità a investire, spendere o prestare soldi non è la stessa di qualche anno fa. Non posso certo dire se si debba o meno rinnovare l’accordo, ma credo che dobbiate rivederlo con grande accuratezza per assicurarvi che porti avanti gli interessi dell’Italia e non solo quelli della Cina.
Immagino però che sia una decisione complicata per qualsiasi governo dire “no” alla mano tesa della Cina…
L’Australia per esempio ha detto “no” e sta prosperando, quindi, volendo, è possibile dire “no” a i cinesi…
La questione dell’accordo sulla Via della seta ci mette però di fronte all’evoluzione del concetto di sicurezza nazionale che una volta era molto limitato all’ambito militare, oggi invece vediamo che anche un accordo prevalentemente commerciale, accademico, di cooperazione civile e industriale, rivela profili di sicurezza. Come ci si deve confrontare con tutto questo?
La situazione è esattamente quella che lei descrive. E’ interessante notare a proposito che l’Italia ha un Consiglio supremo di Difesa ma che questo istituto si occupa soltanto della parte militare. Negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito e in Germania, e anche in altri paesi, ci sono consessi che si occupano della sicurezza nazionale e che lavorano direttamente per i primi ministri o i presidenti, a seconda dei casi, il cui obiettivo è quello di assicurarsi che tutti gli interessi nazionali siano presi in considerazione e salvaguardati. Normalmente vi partecipa personale del ministero della Difesa, degli Esteri, dell’Economia, del Commercio e così via… Tutti questi interessi vengono messi insieme e tenuti in considerazione. In questo modo chi deve prendere le decisioni – il primo ministro o il presidente – ha un quadro chiaro di come è composto “l’interesse nazionale” e di come tutelarlo. Per questo sono nati quasi ovunque nei nostri paesi i Consigli per la Sicurezza nazionale e nessuno ha mai cambiato idea o è tornato in dietro da questa strada, perché si è visto il valore aggiunto che questa impostazione portava al paese e al governo in carica.
Lei ha fatto parte del Consiglio per la Sicurezza nazionale durante la presidenza Bush: ci può spiegare meglio come funziona quella istituzione e se non racchiuda il rischio di entrare in conflitto con il resto dell’amministrazione, con gli altri dicasteri…
Nel nostro caso funziona all’interno della Casa Bianca – come a Londra a Numero 10 di Downing Street – da dove si osserva e si segue quello che stanno facendo i vari ministeri secondo le loro competenze e interessi, perché è ovvio che ognuno vede il mondo sotto il suo particolare angolo visuale. La missione dunque è quella di comporre tutti questi punti di vista. Il Consiglio di Sicurezza nazionale fa questo lavoro: ci sono duecento, trecento funzionari che vengono nominati dal Pentagono, dal Dipartimento di stato, dal Tesoro, dall’Energia, dalla Cia, e altri ancora che vengono da altre amministrazioni, ma ognuno risponde a un consigliere che viene nominato direttamente dal presidente per uno specifico campo d’azione. L’obiettivo è quello di assicurarsi che ci sia sempre qualcuno che abbia gli interessi del presidente in mente, non solo quelli di questo o quel ministero. In sostanza qualcuno deve essere in grado di dire al presidente: “Guardi, questo è quello che vorrebbe il ministero della Difesa, ma stanno chiedendo troppo, oppure hanno sottovalutato l’aspetto economico…”. Per questo, quando c’è un incontro con un leader straniero, sono gli alti funzionari del Csn che entrano nell’Ufficio ovale e fanno l’elenco delle richieste di ogni dipartimento coinvolto, e cercano di fare una sintesi che altrimenti sarebbe impossibile. In base a questa sintesi di interessi il presidente prende la sua decisione o sceglie l’atteggiamento da tenere in quel contesto, e lo staff del Csn a quel punto è incaricato di verificare che i ministeri si adeguino…
Quindi, se capisco bene, il Csn non è un organismo che si riunisce nel momento di una crisi o di una emergenza, ma è costantemente attivo a monitorare l’insorgere di crisi o emergenze e a fare in modo di prevenirle…
Nel caso dell’America è in effetti entrambe le cose: il Csn si riunisce in caso di crisi con tutti i suoi vertici, presidente, vicepresidente, ministri, vertici militari ecc., ma è certo anche una struttura permanente di coordinamento su tutti i fattori della sicurezza.
In Italia come lei ricordava, abbiamo il Consiglio supremo di Difesa che si attiva in caso di crisi presso la presidenza della Repubblica, ma forse ci manca un monitoraggio coordinato giorno per giorno delle possibili fonti di minaccia alla sicurezza.
Credo che all’Italia manchi una piena integrazione delle politiche commerciali, economiche, finanziarie, della diplomazia, della difesa, in ordine alle minacce alla sicurezza nazionale. Questo si rende necessario perché oggi queste minacce sono spesso di natura economica o finanziaria. Abbiamo parlato dell’accordo economico tra Italia e Cina. Ovviamente se il governo deciderà di porre fine all’accordo, la Cina non invaderà l’Italia con il suo esercito, ma le ritorsioni saranno di tipo economico o commerciale. Per questo sempre più si ha bisogno di un punto decisionale dove queste minacce vengano viste nell’intero panorama strategico.
Il tipo di minacce che lei descrive mi pare corrisponda a ciò che oggi si chiama “minaccia ibrida”, quell’insieme di rischi per la sicurezza che hanno a che fare non solo con il versante militare, ma appunto con quello economico, energetico, commerciale, mediatico, cyber, ecc. Possiamo approfondire il concetto?
E’ proprio così, tutte queste minacce esistono e alcune sono nuove, come quelle legate al mondo cyber che venti anni fa non esistevano. Nel caso della Cina ad esempio, vediamo che essa ha grandi risorse in ciascuno di questi settori. I nostri governi sono in genere molto attenti alle loro burocrazie e vedono bene quello che le minaccia, ma in questo modo possono non vedere altri fattori di rischio. Chi due mesi fa avrebbe detto che un pallone aerostatico cinese poteva essere una minaccia per la sicurezza americana? Adesso ne siamo tutti consapevoli. Il paesaggio delle minacce cambia quasi quotidianamente e oggi la gamma di queste minacce è amplissima. Certo la dimensione militare è ancora molto presente, lo vediamo nella guerra in Ucraina, ma dalle nostre parti la minaccia che avvertiamo di più non è quella militare, che è limitata all’ambito del conflitto: noi avvertiamo piuttosto dei rischi su interessi tecnologici ed economici molto molto forti.
Un’ultima domanda, sulla guerra in Ucraina. Pochi giorni fa abbiamo ricordato che è passato un anno dall’invasione russa e nonostante i governi occidentali restino molto saldi nella loro determinazione, le opinioni pubbliche e anche le classi dirigenti mostrano una certa stanchezza nel sostegno a Kyiv: in che direzione stanno evolvendo le cose?
Sono in effetti preoccupato di questa deriva dell’opinione pubblica negli Stati Uniti, in particolare tra gli elettori repubblicani. Ma i governi, il nostro e quelli europei, sono stati finora molto forti nel mantenere le loro posizioni. L’idea che non si possa consentire a Putin di vincere, che non si possa permettere che un paese invada un altro paese e si appropri di parti del suo territorio, resta centrale e condivisa. Io sono fiducioso per il 2023 che l’Amministrazione Biden rimarrà forte nella sua determinazione di appoggiare l’Ucraina. Abbiamo già approvato il budget necessario. Lo stesso vale per i governi europei, penso al Regno Unito o alla Germania dove ci sono i Verdi che sono i più forti sostenitori dell’Ucraina. Poi c’è l’aspetto della Russia. Io credo che nel corso dell’anno vedremo dispiegarsi appieno l’effetto delle sanzioni. E non dimentichiamo che in questo anno almeno un milione di russi hanno lasciato il paese. Sono persone che avevano ruoli decisivi nei settori più avanzati della tecnologia e molte industrie ne stanno soffrendo. La propaganda russa comincerà presto ad essere smentita dai fatti. So far so good, come diciamo qui.
Intervista realizzata per Zapping Radio 1