L'8 marzo delle donne afghane

Paola Peduzzi

Scappano da mariti violenti, vedono sparire i mariti che hanno scelto, sono senza scuola, senza lavoro, senza soldi, senza  aiuto. La resistenza solitaria contro la brutalità dei talebani e contro la rassegnazione    

Milano. “Stavo vivendo una nuova vita, ero felice, mi sentivo al sicuro dal mio primo marito, non pensavo che avrei dovuto nascondermi ancora”, dice una donna afghana al Washington Post: ha ventidue anni, tre figli, cambia casa di continuo, manda la figlia più grande a comprare il pane perché ha paura di essere scoperta e denunciata se esce di casa. Come molte donne in Afghanistan, anche lei pensava che certe paure non le avrebbe più provate, ha vissuto gran parte della sua vita in un paese molto conservatore ma non governato dai talebani, era stata venduta dal patrigno a un uomo che aveva dovuto sposare a tredici anni, lui la picchiava e l’aveva chiusa in casa, ma lei era riuscita a dimostrare in un tribunale gli abusi subiti e aveva ottenuto il divorzio “unilaterale”, quello in cui il marito non deve essere d’accordo – perché non è mai d’accordo un uomo che considera la moglie una sua proprietà – era andata a vivere in città e si era risposata. La sua nuova vita era questa: un marito scelto da lei, i figli da crescere, piccoli lavoretti da sarta per contribuire alle spese della famiglia.

 

Ora che questi divorzi unilaterali non sono più considerati conformi con la sharia imposta dal regime talebano, che ha ripreso con furia il potere nell’istante stesso in cui è cominciato il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan nell’agosto del 2021, il secondo marito è scappato impaurito, ha mandato qualche soldo per un po’, ora  è scomparso, lei rischia di essere accusata di adulterio. Il suo primo marito la sta cercando, chiede ai vicini di allora e delle ultime case in cui ha abitato se sanno qualcosa di lei, li minaccia, offre ricompense, li riminaccia: lei sa che qualcuno prima o poi la denuncerà, e quindi scappa. Ci sono migliaia di primi mariti afghani che stanno andando a riprendersi le mogli che hanno avuto l’ardire di chiedere il divorzio, perseguitano anche gli avvocati che hanno permesso a queste donne di liberarsi dalla violenza e dal controllo, vogliono la restaurazione di un matrimonio di cui non gli frega nulla solo per dimostrare che in Afghanistan ora vale la regola islamista e ancor più la regola del più forte: l’uomo. Le donne non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire se non sono accompagnate da uomini, non possono nemmeno aiutarsi l’un l’altra perché il controllo degli uomini deve essere assoluto.

 

Ci sono migliaia di secondi mariti che scappano, cambiano nome e città, non parlano, forse non dimenticano ma  scompaiono perché non hanno il coraggio di affrontare le conseguenze: ogni contatto con la vita di prima può essere fatale, lo sanno anche le loro mogli che quindi non li cercano più. Ma questa vita in fuga dagli uomini non garantisce affatto la sopravvivenza, anzi, lo scopo di questa devastazione è costringere le donne a consegnarsi al controllo degli uomini: senza di loro, non lavorano, non guadagnano, non mantengono i loro figli, sono costrette a cedere le loro figlie ad altri uomini contribuendo così, senza alternative e senza speranza, al piano sociale dei talebani. 

 

Alcuni uomini hanno protestato, si sono alzati dalle aule universitarie, hanno detto: se non possono studiare le ragazze, non stiamo qui nemmeno noi. Non si sa che fine hanno fatto. Alcuni uomini hanno difeso le colleghe negli ospedali, l’unico posto in cui le donne possono ancora lavorare a patto che non abbiano contatto con gli uomini: come possiamo curare le persone se è vietato scambiarsi informazioni importanti sulla salute dei pazienti con le dottoresse e le infermiere? Poi hanno smesso. E la resistenza delle donne afghane contro l’apartheid di genere – espressione che qui, sotto il regime talebano, non è un’esagerazione – diventa una lotta contro la rassegnazione: la loro, quella delle loro famiglie, ma anche la nostra, soprattutto la nostra.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi