I cent'anni di James L. Buckley, icona del conservatorismo americano
È stato sottosegretario agli Esteri durante l’Amministrazione di Ronald Reagan e infine nominato dallo stesso presidente come giudice federale nella Corte d’appello del circuito di Washington D.C. La sua parabola politica è stata contrassegnata da una coerenza adamantina con i suoi princìpi di governo limitato e non invadente
Oggi James L. Buckley, icona del conservatorismo americano, compie cento anni. La sua parabola politica di senatore, sottosegretario agli Esteri durante l’Amministrazione di Ronald Reagan e infine nominato dallo stesso presidente come giudice federale nella Corte d’appello del circuito di Washington D.C. è quella di una coerenza adamantina con i suoi princìpi di governo limitato e non invadente, nella miglior tradizione della destra americana – una coerenza che difetta molto, invece, a un Partito repubblicano che ha applaudito i deliri vendicativo-autoritari dell’ex presidente Donald Trump alla convention del Cpac qualche giorno fa.
Buckley ha respirato il conservatorismo originario in famiglia: il padre William F. era un imprenditore petrolifero che aveva sostenuto il repubblicanismo di Teddy Roosevelt, favorevole a un forte governo centrale che favorisse una vigorosa difesa degli interessi americani, ma che negli anni successivi era diventato uno degli oppositori dell’altro Roosevelt, Franklin Delano, lontano parente di Teddy, democratico e architetto del New Deal, la più grande espansione del governo federale, diventato erogatore di welfare e di posti di lavoro. Agli occhi della famiglia Buckley, un’inaccettabile intrusione del “Big government” nell’attività economica. Il fratello di James, William Junior, fondò la National Review nel 1955 come un magazine che difendesse i principi del conservatorismo tradizionale di fronte a quella quiescenza che percepiva anche da parte repubblicana nei confronti del nuovo sistema economico di matrice keynesiano. Infatti, James non è mai stato particolarmente tenero nei confronti del Partito repubblicano: nel 1970 a New York scelse di candidarsi al Senato per un terzo partito, il Partito conservatore di New York, una formazione politica scettica nei confronti del pragmatismo centrista del governatore Nelson Rockefeller, visto come ideologicamente inconsistente. E vinse con il 39 per cento dei voti, uno dei rari candidati di un terzo partito a prevalere nelle urne negli ultimi cent’anni. Buckley fu sostenuto da pezzi importanti della destra repubblicana: Clifton White, già manager della sfortunata campagna presidenziale di Barry Goldwater del 1964, organizzò il suo sostegno territoriale, catturando il voto delle aree rurali, grazie anche al suo sostegno aperto per lo sforzo bellico delle truppe americane in Vietnam, posizione che gli garantì l’appoggio di John Wayne, che registrò uno spot televisivo a suo favore. Durante il suo mandato fu uno strenuo oppositore dell’aborto e quando nel 1973 la sentenza Roe v. Wade lo rese lecito su tutto il territorio americano, tentò di introdurre un emendamento costituzionale a difesa della vita, così come fu un sostenitore della scelta scolastica genitoriale, portando all’approvazione del cosiddetto “emendamento Buckley” nel 1974. Negli anni avrebbe dissentito ancora una volta nei confronti del Partito repubblicano per quanto riguarda la questione ambientale, che secondo lui andava regolamentata a livello congressuale: “I gas nocivi non conoscono i confini statali” affermava.
Una posizione troppo indipendente per durare in un ambiente che andava sempre più polarizzandosi: nel 1976 fu battuto dal senatore democratico Daniel Moynihan. La sua carriera però non finì qui: fu sottosegretario agli Esteri nell’Amministrazione Reagan, occupandosi del blocco sovietico, carica in virtù della quale ricoprì anche la posizione di direttore di Radio Free Europe, l’emittente che diffondeva a est il messaggio ottimista del reaganismo. Reagan aveva preso molto delle idee dei fratelli Buckley per portare a compimento la sua “rivoluzione” liberista e conservatrice. Buckley, infine, difese le sue convinzioni anche come giudice federale, difendendo un’idea giudiziaria minimalista, lontana dall’interventismo dei giudici liberal.
Per Buckley il Partito repubblicano non sempre fu la formazione politica che corrispondeva alla sua idea di conservatorismo con venature green. Oggi quel partito è ancor più irriconoscibile, con una sua parte consistente ferma nel culto del trumpismo. Quando scoppiò lo scandalo del Watergate, Buckley aveva messo in guardia dai rischi di una presidenza troppo potente. Oggi quei princìpi sono minoranza in entrambi i partiti, che preferiscono fare largo uso dei poteri federali, quando ne hanno l’occasione. Il conservatorismo originario, quindi, è nuovamente il convincimento di pochi, come quando Buckley iniziò a occuparsi di politica, tanti anni fa.
L'editoriale dell'elefantino