il commento
L'Europa contro l'ingordigia moderna, che butta il cibo alla data di scadenza
La Commissione europea ora vuole educarci al “buono anche dopo” (spesso). Feuerbach ci spiegò che l'uomo è ciò che mangia. Ecco noi non siamo scaduti, ma "spesso buoni"
La Commissione europea vuole aggiungere sulle etichette degli alimenti, accanto alla dicitura “consumare preferibilmente entro”, anche l’espressione “spesso buono oltre”. Dunque la prima data indicherà come oggi l’assicurazione di assoluta freschezza, diciamo del gorgonzola, mentre la seconda data indicherà il lasso di tempo entro il quale il suddetto gorgonzola potrebbe, ma chissà, essere ancora commestibile.
Sempre secondo il principio relativista dettato a suo tempo da Lorenzo de’ Medici, però: non v’è certezza. “Spesso buono”, dunque. Non sempre. Dipende. Talvolta. Il fatto, ci vuole dire nella sua infinita saggezza la Commissione europea, è che lo devi osservare, il benedetto gorgonzola. Dagli comunque un’annusata, prima. Se per esempio la muffa si muove, non lo mangiare. È ovvio. Comunque a scanso d’equivoci fallo provare al gatto. Se sei animalista, alla suocera.
E nel caso: Imodium. Insomma, come si capisce, “spesso buono” potrebbe ben presto diventare anche un nuovo modo di dire. Un po’ come “lavoratrici del sesso” al posto di “prostitute”. Chi è quel troglodita che oggi direbbe “becchino”? Si dice “operatore cimiteriale”, accidenti. E la monnezza? “Materiale post consumo”. Così quel vecchio salame non sarà più “andato a male” né “putrescente”. Guardi signora che lei si sbaglia, dirà l’onesto macellaio alla povera massaia (pardon alla “persona che cura l’andamento della propria casa”): quel salame non è rinsecchito ma è “spesso buono”. Praticamente vintage.
E se lo stolto sarà a questo punto tentato di proseguire nell’ironia, qui gli si vuole ricordare che già nel 1850 Feuerbach, recensendo la “Fisiologia del gusto” di Anthelme de Brillat-Savarin, spiegò a noi occidentali che “l’uomo è ciò che mangia”. Da allora è stato chiaro agli europei che per governare i criteri formativi della loro identità sarebbero prima o poi dovuti scendere dal lettino della psicoanalisi per mettersi a tavola. Da Freud ad Artusi, all’incirca. Ed è infatti certamente significativo che “sapere”, etimologicamente, derivi da “sapore”: se avere sapore vuol dire sapere, allora è proprio vero che “ciò che mangiamo” è al tempo stesso “quel che siamo”.
Non scaduti, dunque, ma spesso buoni. Ed è proprio questo il punto della Commissione europea che, in un mondo in cui più della metà della popolazione muore di fame, è animata dal proposito di contenere lo spreco alimentare nel nostro continente. Secondo un’idea, oggi si direbbe equa e solidale, che vede il cibo come ostentazione, mostruosità che atterrisce, quasi una pratica di annichilimento dell’altro attraverso lo spreco delle nostre risorse residuali. La nonna diceva: mangia, è un peccato buttare le cose. Ecco. La Commissione europea è un po’ come la nonna. E l’incerta dilatazione della data di scadenza degli alimenti diventa dunque il modo perfetto di autorizzare l’abbondanza senza rischiare il senso di colpa dell’ingordigia. Così a noi non resterà che mangiare talvolta mozzarella che rimbalza e olive che camminano. E chi glielo doveva dire al “Qb”, il quanto basta delle ricette di nonna, che si sarebbe inverato nel “spesso buono”.
La nuova Commissione