We the people
Così l'occidente s'è messo ad ascoltare le aspirazioni dei popoli, da Kyiv a Tbilisi e oltre
La resistenza ucraina ci ha costretti a rimettere al centro le persone e la loro salvezza, con i suoi funerali infiniti e la sua infinita vitalità, dolore e forza assieme, nella conta dei morti e nella conta dei sopravvissuti
Milano. Ieri una grande folla ha riempito il centro di Kyiv, il cuore delle proteste, dell’Europa, del cordoglio e della resistenza, per il funerale di Dmitro “Da Vinci” Kotsyubaylo, capitano ventisettenne di un battaglione di volontari ucciso vicino a Bakhmut: Dmitro aveva combattuto nel 2014 durante la prima invasione russa ed era stato ferito, era uno dei giovani ucraini che più avevano parlato di libertà e di futuro, era stato nominato “eroe dell’Ucraina” e il suo volto era un’icona, un simbolo, una motivazione. Alla cerimonia c’era anche il presidente Volodymyr Zelensky con un mazzo di fiori in mano, al suo fianco Sanna Marin, premier finlandese in visita nella capitale ucraina, e poi il ministro della Difesa, i capi dell’esercito, e quella enorme folla in lutto – il popolo ucraino con la sua straziata tenacia che ha ribaltato non soltanto i calcoli feroci di Vladimir Putin ma anche la prospettiva occidentale che nella sua politica internazionale aveva preso a occuparsi più di tenere a bada i leader più riottosi che a curarsi delle persone e delle loro aspirazioni.
Il paradigma è cambiato all’inizio degli anni Dieci di questo secolo, quando le primavere arabe si sono risolte nel sangue della restaurazione di un potere prepotente, quando il silenzio è sceso sul popolo siriano bombardato e torturato dal suo dittatore (sostenuto da Putin), quando l’aggressione continuativa russa in Ucraina è stata derubricata a conflitto a bassa intensità, quando anche l’accordo sul nucleare con Teheran non ha assolto il suo compito di restituire al popolo iraniano un po’ di libertà e di benessere (ma non è certo questo il motivo per cui è stato affossato), quando il ritiro in Afghanistan, caotico e sordo alle sue conseguenze che pure si sentivano chiarissime, ha condannato a un destino di terrore un paese che aveva assaporato un po’ di libertà. La resistenza ucraina ci ha costretti a rimettere al centro – lo scopo per cui ci si arma per difendersi – le persone e la loro salvezza, con i suoi funerali infiniti e la sua infinita vitalità, dolore e forza assieme, nella conta dei morti e nella conta dei sopravvissuti (lo splendido documentario della giornalista dell’Independent Bel Trew, “The body in the wood”, ci porta un passo più in là, tra i cadaveri non identificati e le sepolture di corpi che pensavi fossero quelli dei tuoi parenti e invece no, erano altri, e ricomincia la ricerca).
E questa centralità trova la sua conferma anche nel popolo georgiano, che aveva sperimentato i carri russi e i confini inghiottiti in una notte prima dell’Ucraina, che si è poi ritrovato, quindici anni e molti trambusti politici dopo (molti ma sempre uguali: l’aspirazione occidentale, la minaccia russa), a protestare contro l’autoritarismo del proprio governo e ad averla vinta: ieri lo stesso Parlamento che all’inizio della settimana aveva approvato la legge che definisce il dissenso “agente straniero” l’ha ritirata. Mosca dice ai georgiani: fermatevi o patirete le stesse sofferenze dell’Ucraina. Ma Putin ragiona al contrario, da noi resistere come gli ucraini è un esempio non soltanto cui ispirarsi ma anche da mettere al centro, il perno su cui far girare il sostegno, la solidarietà, la nuova capacità di allargarsi e trovare spazio per ogni persona.