Addio al caudillo
La memoria di Franco in Spagna, tra l'archeologia del dolore e l'oblio delle nuove generazioni
Il senatore Carlos Floriano, portavoce del Partito popolare, economista e docente dell’Università di Estremadura, ha pubblicato a gennaio un romanzo che ha riaperto il ricordo della Guerra civile. e del regime franchista. Che è ora argomento di nicchia, del quale non si parla
"Franco murió en su cama”. Morì nel suo letto Francisco Franco, Caudillo di Spagna, il 20 novembre del 1975. L’agonia fu crudele, prolungata oltre i limiti dell’accanimento terapeutico. Ma l’ultimo dittatore del XX secolo in Occidente si spense nel suo letto. Con tutti gli ossequi e gli onori dovuti a un capo di stato in carica.
Le immagini come sempre focalizzano la verità del momento. E sono le immagini della fila infinita, centinaia di migliaia di spagnoli, davanti alle spoglie mortali del Generalísimo, esposte per più di due giorni al Palazzo Reale di Madrid. Piaccia o no fu l’omaggio di una nazione.
Che il Caudillo fosse stato sconfitto solo dalla biologia era un’evidenza. La colse con aforisma fulminante uno scrittore già celebre come Manuel Vázquez Montalbán, comunista impenitente e impertinente. “Contra Franco vivíamos mejor”, disse. Vázquez Montalbán già a 23 anni nel 1962 aveva conosciuto le carceri franchiste a causa della sua attività politica. Anni dopo aggiunse: “Uno dei mali della sinistra spagnola è il non essere andata oltre il vivere contro il franchismo. Per questo contro Franco vivevamo meglio”.
Eppure il franchismo aveva già cominciato a morire prima della fine del Caudillo. Non solo l’isolamento internazionale. Un colpo al cuore lo avevano dato i baschi dell’Eta con i continui attentati. Nel 1973 assassinarono perfino il delfino di Franco, l’ammiraglio Carrero Blanco, saltato in aria nell’Operazione Ogro. Ma oggi a Madrid, nella capitale en marcha perpetua, nessuno parla della dittatura. Non come in Italia dove il fascismo, vero o presunto, è accusa quotidiana e molto social con inevitabile profluvio di parole. In Spagna il franchismo è argomento più di nicchia, di chi frequenta i palazzi del potere, le redazioni dei giornali, le case editrici.
Tra i molti libri che si stampano, un piccolo caso letterario lo ha creato il senatore Carlos Floriano, portavoce del Partito popolare, economista e docente dell’Università di Estremadura. A fine gennaio ha pubblicato il suo primo romanzo: Tan terrible es el odio (edizioni Almuzara) che racconta una storia vera accaduta durante la Guerra civile. Una storia come tante che, però, risulta controcorrente rispetto all’attuale narrazione di quel periodo. Perché il protagonista, un lontano parente deputato liberale, è sequestrato e ucciso da un gruppo di miliziani al servizio della Repubblica. Sullo sfondo la Madrid feroce del ‘36. “Un romanzo contro il settarismo, contro i discorsi di odio, contro i proclami che dividono”, dice Floriano. “Non si può continuare a guardare all’indietro”.
L’argomento non sfiora la calle. Non ci sono più neppure statue o nomi di piazze e strade a rammentare i protagonisti del franchismo. Tutto rimosso. I ragazzi, come in tutto l’Occidente, sconoscono la storia recente. E se ricordano La era de Franco è solo per prenderne le distanze, quasi meravigliandosi che sia morto così vecchio nel suo letto.
Neppure la Ley de Memoria Democrática in vigore dal 19 ottobre 2022 li scuote. E dire che la chiamano Ley de Nietos, “la legge dei nipoti”, perché amplia enormemente la possibilità di richiedere la cittadinanza spagnola, e di conseguenza europea, a figli e nipoti, nati all’estero, di spagnoli vittime del franchismo o in esilio tra il 1936 e il 1975 per ragioni politiche, ideologiche, di credo, orientamento e identità sessuale. Chissà quanti saranno i figli e i nipoti della diaspora alla fine del biennio previsto dalla legge per presentare la richiesta di cittadinanza. Soprattutto quanti saranno dai paesi dell’America latina in crisi politica ed economica. Nessuno lo sa o lo dice.
Per il governo socialista di Pedro Sánchez, che include un ministero di Memoria democratica, è una legge “fortemente simbolica”. Fernando Martinez, segretario di stato di quel ministero, afferma che “el olvido, l’oblio è incompatibile con la democrazia”. Specificando che la volontà di ricordare non serve a riaprire ferite. Semmai a chiuderle. Per questa ragione la Memoria Democrática va studiata a scuola. Ma la memoria è “materia”, per dirla col filosofo Henri Bergson. In Spagna da sempre controversa. Costringe a fare i conti con la storia, a tornare all’alba della Transizione. Al Pacto del olvido, un accordo comune, non scritto, con cui si decise di dimenticare il passato per concentrarsi sul futuro del paese. Si torna alle scelte che tutti gli attori in campo, politici, sociali e istituzionali, a partire dal re Juan Carlos, presero per traghettare in modo rapido e soprattutto incruento la Spagna dalla dittatura a un democrazia costituzionale. Con le amnistie concesse nel 1976 e ‘77 erga omnes. Con il riconoscimento dei partiti, fino ad allora clandestini, dei diritti politici e sociali, delle libertà individuali come il diritto d’espressione. Furono indette le elezioni politiche nel ‘77 e amministrative nel ‘79.
In Spagna non si votava dal 1936 con la Seconda Repubblica quando vinse il Fronte popolare. Lo stesso anno del golpe militare a cui prese parte Franco e che diede inizio il 18 luglio alla Guerra civile. Incrociarono le armi las dos Españas di sempre. Las dos Españas dei versi di Machado o del duello fratricida dipinto da Goya. Il quadro è esposto al Prado, ma la sua riproduzione giganteggia nella Estación del Arte della metro di Madrid, quella più vicina ai grandi musei. E uno si chiede perché proprio quel dipinto. Perché quel tragico memento.
La Transizione portò alla Costituzione del 1978, non a caso detta de la Concordia. Il testo, redatto da una commissione in cui erano presenti tutte le forze politiche dell’arco parlamentare, fu sottoposto all’approvazione dei cittadini mediante referendum. Alla base “lo spirito del consenso”. Cioè la volontà di puntare sulla democrazia al servizio di tutti. Nessuno escluso. Secondo alcuni l’epoca della Transizione ebbe termine con l’approvazione della Costituzione. Secondo altri coincise col primo governo socialista nel 1982.
Ma per tanti le virtù della transizione sono ancora oggi i vizi della democrazia. E si riparte da Franco che murió en su cama. Da quell’alba incerta. Anzi, “livida”, come annotarono diligentemente i cronisti. Nessuno sapeva prevedere cosa sarebbe successo. Neanche uno tra gli oppositori durmió en su cama, se non quelli che si trovavano già all’estero, il cosiddetto exilio esterior. Fu tempo di paure, incertezze e speranze.
Nel saggio Pensamiento espanol en la era de Franco Elías Díaz, cattedratico emerito di Filosofia del diritto presso l’Università Autonoma di Madrid ricorda quel 20 novembre del ‘75 visto da lontano, dalla solitudine verde delle Asturie: “Uno non riusciva a credere che fossero vere quelle tre parole – Franco ha muerto – che erano apparse al mattino silenziose, immobili, fisse per lunghi minuti sullo schermo del televisore. Quelle parole che la gente ripeteva a voce bassa per telefono o incontrandosi di fretta per strada. Nessun clamore. Piuttosto una calma piatta. Poi quelle parole vennero scritte a caratteri cubitali su tutti i giornali. Vennero rilanciate nel mondo. Franco ha muerto. Il futuro, il nostro futuro, era cominciato”.
Elías Díaz è stato protagonista del ritorno della democrazia costituzionale in Spagna. Da vecchio socialista vive con distacco il presente. Non crede che il postfranchismo, così residuale nel paese, costituisca un problema per la Spagna di oggi.
La stessa opinione di Secundino González Marrero, professore di Scienze politiche prima alla Università Complutense di Madrid e adesso in Messico: “La memoria del franchismo si è già dissolta. Ripescarla non attrae votanti”, afferma.
Il lungo requiem per Franco si è compiuto. Tappa dopo tappa. Adelante con juicio, per dirla con Manzoni. Sorpassando paure e ostacoli. Come dimenticare l’irruzione armi in pugno del colonello Tejero nelle Cortes il 23 febbraio del 1981? Un tentativo di golpe militare stroncato dal re Juan Carlos. Il quale forse non era del tutto ignaro ma salvò comunque la giovane democrazia spagnola.
Nulla a che vedere con la storia del fascismo italiano. Con la fine violenta di Mussolini nel 1945, con la sua esposizione al pubblico ludibrio, appeso a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina di piazzale Loreto a Milano. In Italia la guerra, la vittoria degli Alleati e infine la nascita della Repubblica, ovviamente antifascista.
Il che permise, molti anni dopo, a un osservatore acuto della società italiana come Leonardo Sciascia di denunciare “l’eternamente possibile fascismo italiano”, ma anche di individuare un primato nazionale, la specialissima categoria dei professionisti dell’antifascismo: “Il più bell’esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è”. Fino ad arrivare a oggi, alla prima presidente del consiglio donna, Giorgia Meloni, non a caso chiamata “la ducetta” dalle opposizioni.
“In Spagna non ci fu una guerra che mise fine alla dittatura. Per questo finiamo con l’usare sempre la metafora di Franco morto nel suo letto”, sottolinea Elías Díaz, il quale conosce bene l’Italia, tra lauree honoris causa e studi su Norberto Bobbio, di cui fu allievo. “Qui la scomparsa del Caudillo lasciò il franchismo intatto. Certo, un franchismo diverso da quello degli esordi e dei primi decenni di dittatura. Ma sicuramente intatto nelle istituzioni e negli apparati vitali dello Stato. Eppure, poco tempo dopo, in meno di due anni, questo era già un paese democratico. Una democrazia di sicuro non perfetta, appesantita dall’eredità franchista, da organismi davvero molto, molto potenti. Certo, el cambio non fu facile”.
Por el cambio fu lo slogan di successo che permise a Felipe González di portare i socialisti del Psoe dall’irrilevanza dell’esilio oltreconfine al governo della Spagna, sorpassando nell’immaginario di sinistra il partito comunista di Santiago Carrillo, ben più radicato nel paese, benché in clandestinità.
Ci mise dieci anni Felipe González, dal 1972 al 1982. Ma aveva capito che “era meglio gettare il crocifisso di Marx dalla finestra e andare incontro alle aspettative della mayoría sociológica degli spagnoli”, come ha scritto giorni fa Cristina Casabón, editorialista del quotidiano Abc.
Bisognava fare i conti con le aspettative della classe media che proprio il franchismo aveva contribuito a creare: l’ingresso nel mercato europeo, maggiore giustizia sociale, la libertà di vedere almeno il cinema prodotto all’estero.
“La crisi già allora riguardava la legittimità del franchismo. La mobilitazione contro il regime era manifesta”, afferma Secundino González, che da studente fu testimone dell’epoca. Testimone privilegiato perché accompagnava dovunque Tierno Galván, el viejo profesor per antonomasia, un mito del pensiero critico antifranchista, il quale divenne nel ‘79 il primo sindaco di Madrid eletto con libere elezioni.
González Marrero ricorda le lotte studentesche per le quali Tierno pagò di persona, cacciato dalle università sebbene fosse un cattedratico. Ricorda gli scioperi dei lavoratori, nonostante fosse proibito scioperare, i preti in carcere per ragioni politiche. “C’erano più preti in carcere in Spagna che nella Polonia comunista. C’erano vasti settori della società spagnola, incluse le élite borghesi, soprattutto in Catalogna e nei Paesi Baschi, che non si riconoscevano nel franchismo. Coloro che avevano combattuto por Dios y por España a fianco del Generalísimo e ne avevano tratto beneficio non erano riusciti a trasmettere quei valori alla generazione successiva”.
Già negli anni Settanta si era esaurita la funzione di Franco come baluardo contro il comunismo. “Sentinella d’Occidente”, declamavano i suoi sostenitori. Poi morì.
Cosa resta, dunque, del franchismo? Del regime che il Caudillo riteneva di potere perpetuare oltre se stesso, indicando come suo “successore col titolo di re il principe Juan Carlos di Borbone” già nel ‘69? Quel regime che Franco stesso definì in un celeberrimo discorso alla nazione: “Atado y bien atado”, cioè “blindato, eccome se blindato”, perché avrebbe ripristinato la monarchia mantenendo intatto lo spirito del Movimiento Nacional. Nel solco del cambiare tutto per non cambiare nulla. Restano i fantasmi del passato, le vittime della ferocia di una guerra fratricida a cui si aggiungono quelle della repressione franchista. Che fu durissima e prolungò il massacro – anche solo per un sospetto o per la denuncia talvolta interessata dei vicini – per tutti gli anni Cinquanta, vent’anni dopo la fine della Guerra civile nel 1939. Ancora oggi la stampa tiene il conto quotidiano delle esumazioni dalle fosse comuni dove giacciono i morti assassinati, poveri resti ormai calcificati. E sono migliaia e migliaia i paseados, come si dice qui, dal verbo passeggiare. Uomini e donne prelevati a forza dalle case e spariti nel nulla. Senza che le famiglie potessero neppure piangerli. Desaparecidos. Quasi sempre fucilati e sepolti ai bordi delle strade, in campagna, in grandi cimiteri sotto la luna. Sono loro, le ombre de los abuelos, nonni quasi sempre sconosciuti, che si aggirano ancora per la Spagna, per tutta la Spagna, dalla Catalogna a Leon, dall’Aragona fino alle Asturie o all’Andalusia.
Secondo i dati ufficiali mancano all’appello ancora 114 mila dispersi, in gran parte sul fronte dei vinti. Oggi, per legge, è compito dello stato disseppellirli. In questi giorni a Pico Reja, vicino a Siviglia, hanno chiuso la fossa comune “più grande d’Europa” secondo le cronache locali. Ci sono voluti sei anni di scavi e l’identificazione tra migliaia di resti di 1.786 vittime, riconoscibili per i fori dei proiettili nel cranio o nelle ossa. Nel frattempo a Manzanares, comune della Mancia, hanno finanziato scavi per 180 mila euro. Mentre la più ricca Generalitat della Catalogna ha stanziato cinque milioni di euro per localizzare fosse comuni e recuperare i resti.
Un’archeologia del dolore che ha una cornice istituzionale e legislativa, ma non convince tutti gli spagnoli. Prevale el desencanto, quasi fosse un carattere genetico nazionale.
Sopravvive sottotraccia l’eterna lotta tra la Spagna che muore e quella che nasce cantata da Antonio Machado in Campos de Castilla. Col monito di sempre allo spagnolo che viene al mondo: “Che Dio ti guardi. Una delle due Spagne ti farà gelare il cuore”.
L'editoriale dell'elefantino