il reportage

Viaggio in Turchia tra le macerie del terremoto

Le voci di chi ha perso la propria casa e i propri cari tra Hatay, Kahramanmaraş, Adıyaman e altri piccoli paesi vicini

Carlotta Giauna e Francesca Moriero

In mezzo a una terra desertificata, disseminata di macerie e polvere, dentro le strade di una città che vacilla per una tragedia incomprensibile, c’è una struttura che spunta fuori miracolosamente illesa. La moschea nel cuore di Adıyaman, città turca dell'Anatolia sudorientale, è l’unico edificio che il terremoto del 6 febbraio sembra aver voluto risparmiare; i rumori striduli delle ruspe riecheggiano sulle sue robuste pareti e le ombre dei soccorritori si riflettono sulla sua immacolata facciata. 

Tutt'intorno uno scenario di guerra. Le case dei residenti di Adıyaman, Hatay, Kahramanmaraş, Gaziantep, e di altri piccoli paesi vicini, sono crollate come castelli di carta. Con loro anche gli ospedali, le caserme della polizia, le scuole. Le aiuole delle piazze sono diventate il luogo in cui le persone appoggiano la propria tenda, i parchi e le piazze sono i nuovi punti di raccolta e di distribuzione di beni di prima necessità.

Sulle strade camminano svelti i militari, accanto a loro i bambini giocano tra le macerie delle proprie case. Gli edifici sopravvissuti non hanno più le loro facciate: come nelle case delle bambole si scorgono ancora mobili, poster alle pareti e cucine colorate.

“La nostra casa era in fondo alla strada, qui a Kahramanmaras, in via Cengiz Topel”, racconta Hasan, sistemandosi con la mano il cappello di lana sulla testa. “Quella notte ero a Adana per lavoro, mia moglie mi ha chiamato e mi ha detto: Hasan le pareti sono crollate su di noi, i bambini sono rimasti intrappolati sotto“. Hasan prende per la mano suo figlio più piccolo, mostra la tenda che divide oggi con altre sette famiglie e continua a raccontare: “Ho tre bambini. In tutto quel panico mi sono sentito morire. Ho cercato la prima macchina che ho trovato, perché ancora non ho una macchina tutta mia, sono venuto qui con un’auto di un collega, sono rimasto al telefono per ore con mio fratello, mentre cercava di salvare i miei bambini. Sono vivi, guardali, sono vivi, ma sono ancora terrorizzati”.

Kahramanmaras è una città con oltre un milione di abitanti, la più vicina all’epicentro del terremoto del 6 febbraio. Qui l’autostrada è stata completamente dilaniata e per raggiungere la città è necessario percorrere impervie strade secondarie. Anche ad Hatay le strade sono state completamente distrutte.

Il parco è una delle poche cose intatte e ora è diventato il centro di primo soccorso. “Il sole stava sorgendo quando tutto è crollato”, racconta Bahar fumando una sigaretta, “mi sono accovacciata in un angolo. La mia casa non si è totalmente distrutta, ma sopra di essa sono crollati altri due palazzi e sono rimasta intrappolata”.

Bahar in turco significa primavera, e il suo vestito a fiori sembra volerlo rimarcare. Ha sessantacinque anni, i capelli biondi, e sulle unghie uno smalto viola sbeccato. A salvare Bahar è stato il figlio più piccolo, il più grande è invece morto insieme alla moglie e ai figli.

Lungo le strade c’è ancora chi si siede su quel che resta della propria casa, e senza pace a mani nude scava tra le macerie con la speranza di trovare il corpo di un familiare, o col desiderio di recuperare anche solo un piccolo effetto personale. Tra i sassi spuntano vestiti, scarpe, fotografie, diplomi di scuola, libri.

Helin ha diciannove anni, è siriana, e oggi dorme nel parco di Adiyaman. “La mia famiglia ha perso tutto, ma grazie al cielo è sopravvissuta”, racconta, “qui sono tutti disponibili, ci danno un po' di zuppa e anche del cibo, sono gentili anche se non ci hanno dato una tenda dove poter dormire, e quindi dormiamo qui”. Helin indica un materasso con qualche cuscino appoggiato sopra: “Siamo comunque vivi, e stiamo progettando di tornare in Siria, se Dio vuole”.

C’è freddo al parco di Adiyaman, le temperature sono sotto lo zero, chi è più fortunato divide la tenda con altre famiglie, gli altri dormono per terra sopra a qualche materasso. Qui i volontari distribuiscono pasti caldi e beni di prima necessità e si dividono in gruppi per giocare con i bambini. Il sottofondo però è sempre lo stesso, il rumore delle scavatrici e il suono del vento.

 


Il servizio di Carlotta Giauna e Francesca Moriero è stato girato tra Adana, Adiyaman, Kahramanmaras, Gaziantep, Kilis e Hatay tra il 13 e il 19 febbraio.

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