La città di Bender, in Transnistria ( Andreea Campeanu / Getty Images)

Il reportage

Dieci ore in Transnistria, dove la guerra di Putin è definita “fratricida”

Gianluca Carini

Viaggio nel paese interdetto ai giornalisti e riconosciuto solo da tre stati, dove tutto è rimasto fermo all'Urss. E l'ottica sovietica traspare anche dalla lettura del conflitto in corso

Tiraspol. “Motivo della visita?”. “Turismo”. L’ingresso nel paese che non esiste è interdetto ai giornalisti. Il primo checkpoint è quello moldavo, seguito pochi metri dopo da quello dei peacekeepers russi. In entrambi nessuno domanda nulla. Il terzo, quello decisivo, è invece quello transnistriano. I militari ti consegnano una sorta di scontrino: dentro c’è una data di scadenza (nel mio caso, dieci ore dopo l’ingresso) superata la quale la presenza nella regione separatista sarà illegale. Meglio non perderlo. Il modo più sicuro per raggiungere la Transnistria è a bordo di una maršrutka, il tradizionale piccolo bus sovietico. Se invece viaggi in macchina è probabile che la rivoltino per controllare tutto, a meno che non sia targata Transnistria, letteralmente “oltre il fiume Dnestr”. Per chi ci vive, invece, è Pridnestrovie (“presso il Dnestr”). Il nome Transnistria è inviso agli abitanti della regione per due motivi: innanzitutto perché il confine non segue esattamente il corso del fiume e soprattutto in quanto era il nome usato dai fascisti rumeni.

 

La Transnistria è un paese che non esiste, riconosciuta solo dall’Abkhazia, dall’Ossezia del Sud e dal Nagorno Karabakh, altri tre stati de facto della galassia filorussa. Qui tutto è rimasto fermo all’Urss: sulla bandiera rosso-verde campeggiano la falce e il martello, la capitale Tiraspol è piena di statue di Lenin ed esposto in una piazza c’è anche un carro armato sovietico. Una Disneyland sovietica. La guida mi porta a mangiare in una mensa per lavoratori: scendendo le scale, entriamo in un seminterrato tutto rosso, pieno di cimeli, foto e giornali dell’epoca: per scherzo mi fa indossare un cappotto e una cappello originali per una foto ricordo sotto uno stemma, ovviamente con la falce e il martello. Andiamo in un giorno festivo e il locale è semivuoto, ma durante la settimana – afferma – è sempre tutto pieno. Dal menu prendo una zuppa al pomodoro e un purè e ci accomodiamo a mangiare in una delle due salette. I tavoli, rigorosamente rossi, sono tutti uguali, e il centro di gravità permanente è un televisore enorme – sembra uscito dagli anni ‘50, ha addirittura le manopole – che trasmette un film russo in bianco e nero. A ben vedere, in realtà, il televisore è digitale ma attorno qualcuno ha messo una cornice che lo invecchia, sempre nell’intento di fermare il tempo prima del 1991. La guida sceglie un film da Youtube, ovviamente sovietico: è la storia di un uomo (una sorta di Ercole parecchio maleducato) condannato a due settimane di lavori socialmente utili per aver attaccato briga in un bus, dopo essersi rifiutato anche di lasciare il posto a sedere a una donna incinta e a un (in realtà falso) invalido. Il caso vuole che quest’ultimo si ritrovi ai lavori forzati insieme all’Ercole sovietico, che a questo punto può architettare la sua vendetta. Nel momento clou però il wi-fi inizia a fare le bizze e purtroppo anche noi dobbiamo andare.

   

L’ottica “sovietica” traspare anche dalla lettura del conflitto in corso. Per i transnistriani, russi e ucraini sono fondamentalmente parte dello stesso popolo e la guerra in corso viene definita “fratricida” dalla mia guida, che mette sullo stesso piano Putin e Zelensky. L’invasione russa sarebbe (sempre secondo questa visione “made in Urss”) una risposta alla guerra iniziata dagli ucraini in Donbas nel 2014, la quale ha come effetto che due popoli fratelli si massacrino a vicenda per interessi particolari dei due leader. Aggiungiamo poi che molti transnistriani hanno origini miste, magari un genitore ucraino e uno russo, e questo rende più difficile prendere posizioni nette.

 

Prima del pranzo, il tour prevede un giro per Tiraspol dove, fatte le foto ricordo davanti alla statua di Lenin e in sella al carro armato della seconda guerra mondiale, saliamo sul terrazzo di un palazzone per ammirare il panorama: da un lato una campagna sconfinata, dall’altro edifici su edifici. Spezza questo conformismo sovietico una sorta di ministero degli Esteri della Transnistria, con le bandiere dei tre stati che la riconoscono, più la Russia. Nel tour è compreso un giro alla biblioteca locale: la nostra guida domanda qualcosa alla babuška che la gestisce, la quale inizia un monologo di una ventina di minuti con una celebre citazione di Putin (“la caduta dell’Urss è stata la più grande tragedia del ventesimo secolo”), seguita da un’altrettanto celebre frase del presidente russo (“chi non rimpiange l’Urss è senza cuore, chi vuole ricrearlo è senza testa”). Dopo qualche minuto di flusso ininterrotto di parole, mi domando se davanti a me non ci sia una sorta di propagandista messa lì sapendo del nostro arrivo, ed è un dubbio destinato a rimanere tale. “Allora ognuno lavorava, ci aiutavamo a vicenda, certo se eri un dissidente potevi avere qualche problema, ma per gli altri era tutto ordinato, felice”, è più o meno il riassunto.

 

Abbiamo detto della passione locale per Lenin. L’altro eroe locale è Aleksandr Puškin, il grande scrittore e poeta russo dell’Ottocento che trascorse parte della propria vita in Moldavia. Ho visto monumenti in suo onore a Chisinau, Comrat (capitale della Gagauzia, la regione turcofona e filorussa a sud della Moldavia) e una statua campeggia anche davanti la biblioteca di Tiraspol, a lui intitolata. “Era di origine africana, ebbe una vita travagliata e morì giovane, gli spararono,  come Tupac: insomma è stato il primo rapper della storia”, afferma ironico la nostra guida che, per dimostrare la sua teoria, mette su una base musicale e inizia a rappare una poesia di Puškin, che effettivamente ha un suo perché.

 

Nel pomeriggio, ci dirigiamo verso Bender. “Est Europa: strade cattive, persone buone”, sintetizza bene la guida, costretta a una gimcana tra buche e qualche strada sterrata (alcune in realtà sono in ottime condizioni) fino ad arrivare a un fiume. Per passare all’altra sponda non c’è un ponte, ma una piattaforma semovente, trainata su e giù da due corde che caricano ogni volta una decina scarsa di macchine. Nel passaggio da una sponda all’altra, la guida tira fuori il suo passaporto, che in realtà è più un diario della sua vita in burocratese. Dentro infatti c’è un certificato di nascita, una foto di lui 15enne, un’altra a 25 anni. Da lì ogni 20 anni – spiega – se ne aggiunge una. E, ancora, si trova il certificato di matrimonio o quello di nascita dei figli. La cosa particolare è che è tutto scritto a mano, con una grafia elegantissima. C’è solo un problema che spezza la poesia di tutto ciò: questo documento è carta straccia. Non essendo la Transnistria riconosciuta da nessuno, le carte trasnistriane non hanno valore e quindi  i transnistriani sono bloccati a casa loro. Con quel documento possono andare in Moldavia (tecnicamente, il loro stato) e basta. Molti quindi, anche per ragioni familiari, hanno il doppio (o triplo) passaporto: russo, ucraino, moldavo. Attraversato il ponte, arriviamo a una vecchia stazione. Accanto a un treno sovietico abbandonato c’è un muro crivellato di colpi, ricordo di una delle guerre dimenticate che accompagnarono il crollo dell’Unione sovietica. La Transnistria infatti si dichiarò indipendente nel 1990, poco prima della caduta dell’Urss. Di fronte al “rischio” di un’unificazione di Moldavia e Romania, scoppiò una guerra che vide da una parte l’esercito rumeno e la Moldavia, fresca di riconoscimento delle Nazioni Unite, dall’altra separatisti, volontari russi e ucraini. In Moldavia era presente anche la quattordicesima armata dell’esercito russo, da cui giunsero altri rinforzi spontanei dopo che la Russia dichiarò la propria neutralità. La guerra durò da marzo a luglio del 1992. Girando per la regione separatista, sono tante le statue o i muri dove sono ancora conficcati i segni di quel conflitto. Oltre alle tensioni etniche, l’Urss ha lasciato in eredità alla Transnistria anche un altro problema: la presenza di un gigantesco deposito di armi sovietiche (oltre 20mila tonnellate) a Cobasna, a nord della regione separatista. Munizioni vecchie e in parte scadute a due passi dal confine ucraino: se colpite nel corso di qualche operazione, genererebbero un’esplosione devastante e pericolosissima per un’area molto estesa.

 

L’ultima tappa è Bender, la città descritta (o meglio romanzata) da Nicolai Lilin in “Educazione siberiana”, un testo che qui in pochi hanno letto in quanto non è mai stato tradotto in russo. Al centro della città c’è un supermercato della Sheriff, la grande compagnia presieduta dall’oligarca Igor Smirnov che controlla praticamente tutto in Trasnistria, dalle pompe di benzina ai negozi, fino alla locale squadra di calcio (lo Sheriff Tiraspol), che due anni fa si è trovata nel girone di Champions League con Inter e Real Madrid, sbancando anche il Bernabeu. Nel supermercato di Bender c’è tutto, ma con marchi sconosciuti agli occidentali (eccezion fatta per le sigarette): dalla cola alla birra, tutto è locale o made in Moldova. Per pagare, impossibile usare le carte di credito occidentali e neanche i lei moldavi: la moneta qui è il rublo transnistriano. Prima di andare, facciamo un salto al castello locale, eretto nei pressi del fiume Dnestr su ordine del sultano turco Solimano il Magnifico, lo stesso che diede il nome Bender alla città (termine turco di origine persiana che significa “porto” oppure “passaggio fortificato”). Il castello poi passò nel corso dei secoli a russi, romeni, sovietici e infine ai transnistriani. Secondo lo scontrino, abbiamo ancora qualche ora, ma scegliamo di tornare presto per evitare rischi alla frontiera. Superato di nuovo il triplo checkpoint, ci lasciamo l’Urss alle spalle.

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