Geopolitica della culla
Dalla Cina alla Russia all'Europa: le peggiori distopie demografiche diventano realtà
Le previsioni sulle nascite per gli anni futuri registrano in tutto il mondo dati scoraggianti rispetto a quelle delle morti. Solo gli Stati Uniti si salvano. Ma, anche in questo caso, l'immigrazione è il fattore decisivo per riuscire a stare in piedi
"La corrente era rapida, ma non troppo forte nemmeno per un nuotatore inesperto. Potete farvi un’idea della stranezza di quella gente, quando vi dirò che nessuno di loro si preoccupò minimamente di trarre in salvo la creaturina che urlava e stava affogando davanti ai loro occhi”. È fiction. Di fine Ottocento. Del padre della fantasia scientifica: George Herbert Wells, lo stesso che poi avrebbe immaginato gli invasori marziani sterminati da un virus letale, quello del comune raffreddore. Virus, batteri, epidemie sono uno dei pani quotidiani dello scrittore. Il suo primo racconto, Il bacillo rubato, trattava di terrorismo batteriologico. Il passo citato all’inizio è da La macchina del tempo, del 1895.
C’è chi l’ha definito “una distopia demografica”. Immagina un futuro (a dire il vero molto lontano: l’anno in cui viene trasportato il “viaggiatore nel tempo” è il 802.701) in cui l’umanità si è divisa tra delicati, civilissimi, vegetariani Eloi, cultori della natura e della luce, e bruti, carnivori, fanatici Morlock, cultori delle tenebre. Distopia demografica: la civiltà degli uni si sta sgretolando perché hanno perso interesse al sesso, da tempo immemorabile non fanno più figli. Hanno perso interesse, per inciso, anche al lavoro, allo sviluppo, e alla politica. Stanno per estinguersi.
Sono almeno un paio di secoli che nella fiction, e tra gli studiosi, si alternano apprensioni contrapposte: per un eccesso di popolazione e, al contrario, per un’eccessiva diminuzione della popolazione. In mezzo c’è la paura più grande: quella per chi vorrebbe fare “ingegneria della popolazione”, raddrizzare quel che a loro parere non funziona. È forse la più giustificata, sono quelli che hanno sempre fatto i danni più gravi, spesso irreparabili. Vedi la Cina, dove Mao voleva più cinesi per farla più forte, prepararsi a una possibile guerra. Disse che se anche gli imperialisti americani, “tigri di carta”, avessero usato le atomiche, ne sarebbero sempre sopravvissuti 50 milioni. E poi invece, con una brusca inversione di rotta, a fine anni 70 sotto Deng Xiaoping fu ingiunto brutalmente ai cinesi di non fare più di un figlio a coppia. Salvo invertire rotta un’altra volta ancora, quando erano diventati sì ormai quasi un miliardo e mezzo, e quasi tutti figli unici, ma cominciavano a calare a precipizio, col rischio di non avere più abbastanza giovani per mantenere la maggioranza che sta invecchiando.
La fiction tende ad esagerare. È il suo mestiere. Ma spesso imbrocca i sentimenti di un’epoca meglio della scienza. Si va ad alti e bassi vertiginosi, da stomaco in gola, come sulle montagne russe. Un tempo faceva paura la sovrappopolazione. Imperava Malthus (disprezzato da Marx). La sinistra si batteva per aiutare la natalità. Zola pubblicò un romanzo, Fécondité, in cui contrapponeva la povertà e la sterilità del capitalismo alla fecondità delle classi lavoratrici. Poi, negli anni 30 del Novecento, sopravvenne la paura della decrescita della popolazione in occidente (o, nella versione più odiosa, il terrore che prevalessero le “razze inferiori”).
Spesso i terrori opposti si sovrappongono. Del 1953, cioè in pieno baby boom, l’esplosione demografica post bellica, quella della mia generazione, è Domani e domani e domani, un delizioso racconto in cui Kurt Vonnegut immagina un conflitto sordo tra generazioni, tra il patriarca che si ostina a non morire (la vita si è allungata a dismisura) e i figli e nipoti che non hanno più spazio per vivere. Nel 1968 Paul Ehrlich pubblicava The Population Bomb, sulle tremende catastrofi che sarebbero state prodotte dalla sovrappopolazione. Nel 1973 vidi al cinema Soylent Green con Charlton Heston. Immaginava l’umanità costretta dall’eccesso di popolazione rispetto alle risorse a mangiare cadaveri processati in forma di poltiglia verdastra.
Dello stesso anno è Il campo dei Santi di Jean Raspail. Immagina che in un futuro di solo vent’anni dopo (la fiction sbaglia sempre sulle date) un milione di paria indiani, guidati da un personaggio chiamato “Il coprofago”, si impadronisca di tutte le imbarcazioni nel porto di Calcutta e cominci a navigare alla volta della coste della Francia. La prima ondata dell’invasione è un esercito di cadaveri di annegati che si arenano sulle spiagge. Tra i lettori appassionati che raccomandavano la lettura del romanzo c’erano Marine Le Pen e Steve Bannon, il consigliere ultrà e complottista di Trump.
Non ci piove: il futuro si gioca sulla demografia. Che è la componente essenziale del capitale umano. Si calcola che a ogni anno in più di aspettativa di vita corrisponda un 4 per cento circa di aumento del reddito. Così come a ogni anno in più di scolarizzazione corrispondano 10 punti percentuali in più di pil. L’argomento è delicato e complesso. La politica non è mai riuscita a controllare la demografia, anzi pensando di poterla manipolare ha spesso combinato guai. Da che mondo è mondo, quando la popolazione diminuisce le cose non vanno bene. E poi in genere volgono al peggio. Nella Bibbia la promessa di Dio ad Abramo è che la sua discendenza si moltiplicherà senza limiti. La crescita o il declino della popolazione definiscono la crescita o il declino di una grande potenza, il suo peso relativo rispetto alle altre potenze, e la sua politica. È uno dei fattori dominanti nelle dinamiche geopolitiche. “La grande demografia si accompagna alla grande potenza”, per dirla col titolo di un recente saggio su Foreign Affairs di Nicholas Eberstadt, uno dei massimi esperti americani di demografia.
È sempre stato così, dalla decadenza e dal crollo degli imperi antichi fino ai giorni nostri. Dinastie e regimi, anche i regimi democratici, crollano se sudditi e cittadini muoiono come mosche. Successe, come rivela uno studio recente finanziato dal Wellcome Trust e dall’European Research Council, anche alla Repubblica di Weimar (A Lesson from history? Worsening Mortality and the rise of the Nazi Party in 1930s Germany, Elsevier 2021). Grande guerra e grande depressione degli anni 30 erano state dure per tutti.
Ma per la Germania più dure che per gli altri. Si moriva di miseria, disoccupazione, infezioni, malattie, alcolismo, suicidi. Finì col morire anche la più avanzata democrazia in Europa. C’è tra il 1930 e il 1933 una correlazione significativa, città per città, tra accresciuti tassi di mortalità e aumento di voti per il Partito nazista. A ogni 10 per mille in più di mortalità corrispondeva un 6,5 per cento in più di voti al partito di Hitler. La natalità in Germania era in calo sin dagli inizi del ’900. I nazisti l’attribuivano alla degenerazione morale introdotta da sinistra ed ebrei.
È un po’ di tempo che raccolgo horror stories sull’accorciamento dell’aspettativa di vita, e il peggioramento dell’assistenza sanitaria in quasi tutti i paesi che menavamo vanto del proprio welfare sanitario e dei progressi nell’allungare la vita e la sua qualità per i propri cittadini. Anche in Europa, da un po’ di tempo le aspettative di vita si stanno accorciando, dopo essersi allungate per decenni. E non c’entra solo il Covid, l’incidente di percorso di questi ultimi anni. Negli ospedali si muore come negli antichi lazzaretti. Non siamo nemmeno i peggiori in Europa. Il sistema sanitario pubblico britannico è da tempo sull’orlo del collasso.
La Gran Bretagna del dopo Brexit è l’ultima della classe. Nel 2022 l’aspettativa di vita è precipitata dagli 83,2 anni che ci si sarebbe potuto aspettare, ad appena 81 anni: 700 mila morti in più di quelli previsti. Gli Stati Uniti sono il paese al mondo che spende di più per la sanità, molto più che per gli armamenti. Sapevo che lì, all’eccellenza assoluta per quelli che se lo possono permettere, grazie a costosissime assicurazioni, e a una copertura più o meno garantita per i poverissimi, corrisponde l’abbandono totale per i dannati di mezzo, che non hanno né l’una né l’altra. Mi ha fatto rizzare i capelli leggere che, a differenza che in quasi tutto il resto del mondo, dove i tassi di mortalità delle donne causa parto sono costantemente calati nell’ultimo ventennio, negli Stati Uniti, che hanno già il più alto tasso di mortalità puerperale tra i paesi industrializzati, siano invece aumentati. Peggio ancora, leggere, in uno studio pubblicato in febbraio dal National Bureau of Economic Research, che negli Stati Uniti non solo la mortalità infantile è assai più elevata nelle famiglie di colore rispetto a quelle bianche, ma che addirittura muoiono più bambini nelle famiglie nere più ricche che nelle famiglie bianche più povere. E questo mentre nei 97 paesi meno ricchi del mondo dal 2000 in poi la mortalità infantile si è dimezzata.
Un demografo francese, Emmanuel Todd, era diventato famoso per aver predetto il crollo dell’Unione sovietica dieci anni prima che avvenisse, in base al crescere della mortalità sotto il regime. Continua ad andare male sotto Putin, dopo un periodo in cui sembrava che demograficamente la Russia si stesse un po’ riprendendo. Continuano a perdere un milione di persone l’anno. L’aspettativa di vita è 10 anni di meno che in Europa, un po’ meno che a Haiti. C’è chi stima che la Russia potrebbe scendere sotto i 100 milioni entro il 2050. È sconcertante che, anziché fargli fare più figli, Putin abbia deciso di mandarli a morire in guerra.
O forse c’è un legame tra l’epidemia di Covid che stava scombussolando la Russia e la decisione di invadere. Annunciata su lunghissimi tavoli e in sale immense in cui gli interlocutori venivano tenuti a distanza a prova di virus dal leader supremo. Le cose non vanno meglio per l’Ucraina, che all’inizio del millennio era già uno dei paesi al mondo col più rapido calo di popolazione, e che ha subito una grande fuga, soprattutto di donne e giovani, dall’inizio della guerra. In termini di popolazione ora butta male persino per la Cina. Sono ormai molti decenni che ha buttato male per il Giappone. Che continua a rinsecchirsi.
Se l’Africa si avvia a raddoppiare la popolazione, da 1,25 miliardi nel 2019 a 2,5 miliardi nel 2050, continua a buttare malissimo per tutta l’Europa occidentale. Peggio degli altri per l’Italia. Saremmo nella palta fino al collo se non ci fosse almeno un po’ di immigrazione. I rimedi all’aggravarsi della crisi demografica non sempre hanno funzionato, nemmeno in Francia dove praticamente al terzo figlio non si pagavano più tasse, o in Svezia. Mi è incomprensibile perché il tema di incoraggiare le nascite non venga sollevato dalla sinistra, lo si lasci alla destra.
La Cina si è accorta con orrore che entro questo secolo, non in un futuro fantascientifico, potrebbe vedere la popolazione ridursi a poco più di 500 milioni, un terzo dell’attuale. È una proiezione dell’Accademia delle scienze di Shanghai, fondata su una diminuzione dell’1,1 per cento all’anno. I movimenti in demografia possono essere incredibilmente rapidi. Non era mai successo che un paese invecchiasse così in fretta. Proprio in questi giorni la Cina è stata superata dall’India in popolazione. L’anno scorso sono morti 10,41 milioni di cinesi, ne sono nati 9,56 milioni.
È la prima volta che succede, dagli anni del fallimento del Grande balzo (1959-1960) che lasciò un buco demografico spaventoso, di decine di milioni di persone. Sì, c’è stato di mezzo il Covid. Ma sono sei anni di fila che le nascite diminuiscono. Si sono accorti che con la politica draconiana del “figlio unico” avevano esagerato. “Governare un vasto stato è come cucinare dei pesciolini: cuocerli troppo o troppo poco rovinerà il piatto”, avvertiva già millenni fa il Daodejing. Altro che stracotti, immangiabili! Hanno cercato di porre riparo: prima consentendo il secondo figlio, ora tre (in pratica quanti figli gli pare).
Ma non si impone alla gente di far figli a bastonate. È comprensibile che l’ansia faccia ultimamente far fare la voce grossa a Xi Jinping. Una Cina che fa la fine demografica del Giappone, dell’Europa e della Russia, con annessa stagnazione economica, è il suo peggior incubo. Potrebbe essere la fine per l’ultima dinastia dell’impero cinese, quella del Partito comunista. Senza contare che rende improbabile la conquista di Taiwan con la forza: neanche una dittatura può permettersi di mandare a morire in guerra una generazione di figli unici.
Solo l’America ancora se la cava. Il censimento del 2020 ha confermato che la crescita della popolazione ha continuato a rallentare dagli anni 90 in poi, è al ritmo più basso di tutti i tempi, a eccezione della Grande depressione degli anni 30. Ma dovrebbe continuare a crescere più rapidamente della media del resto del mondo almeno fino a metà secolo. Continueranno da qui al 2040 ad avere più nascite che morti, e quel che conta ancora di più, ad espandere la popolazione in età lavorativa rispetto agli anziani. È una delle spiegazioni del perché l’America continua a crescere imperterrita, di crisi in crisi. L’ottimismo, la fiducia nel futuro fanno certo parte di questo aspetto dell’“eccezionalismo” americano.
Il 41 per cento degli americani resta convinto che il numero ideale di figli sia tre. Il tasso di fertilità continua a essere eccezionalmente elevato rispetto agli altri paesi ricchi. Aveva vacillato una volta sola: durante e subito dopo la guerra in Vietnam. L’elemento decisivo è probabilmente la demografia. Devono ringraziare soprattutto gli immigrati. Non solo l’immigrazione storica, che dai 23 milioni che erano nel 1850 li ha portati agli odierni 330 milioni, e ne ha fatto la massima potenza mondiale. Gli Stati Uniti hanno accolto tra 1950 e 2015 altri 50 milioni di immigrati. Senza gli illegali e i clandestini, che Trump avrebbe voluto espellere e che tener fuori col Muro, sarebbero nelle peste. Si stima che, malgrado i mugugni, continueranno ad accogliere anche negli anni a venire almeno un milione di immigrati l’anno. Non lo facessero, sarebbero fritti. It’s the Economy, Stupid!, avvertiva Clinton. No, it’s Demography, stupid!
L'editoriale dell'elefantino