I muscoli di Pechino
Che cosa chiede in cambio Xi per sostenere il criminale Putin? L'egemonia militare
La visita del leader cinese a Mosca subito dopo l'incriminazione del presidente russo da parte del tribunale dell'Aja rivela la natura della leadership sul sistema internazionale cui Pechino aspira. Perché la Cina attribuisce un valore tanto alto alle risorse militari
La visita di Xi Jinping a Mosca, iniziata appena dopo l’incriminazione di Vladimir Putin per crimini di guerra da parte del Tribunale penale internazionale, ci rivela la natura della leadership sul sistema internazionale cui Pechino aspira. La Cina tenta di accreditarsi come un’efficace mediatrice di una tregua e addirittura l’araldo di una possibile pace in Ucraina dalla quale edificare una nuova concezione di sicurezza “indivisibile e per tutti i paesi”. Ma, “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, recita un adagio popolare, ovvero: che tipo di risorse può offrire la Russia alle aspirazioni egemoniche cinesi? E che cosa questo ci dice sulla natura e sui mezzi con i quali Pechino pensa di conquistare la leadership globale?
Partiamo con il farci una domanda: in cambio di che cosa vale la pena mostrare solidarietà a un criminale internazionale accusato di un reato tra i più odiosi (la deportazione di bambini), qualcosa che ci riporta alla mente le campagne di Cesare in Gallia o l’esilio babilonese degli israeliti? La risposta è fin troppo ovvia, visto che la Russia ha scatenato una guerra d’aggressione da quasi quattordici mesi ai danni dell’Ucraina: risorse militari. Nonostante la deludente performance delle sue forze armate, la Russia resta una superpotenza nucleare che ha nel campo militare la sua risorsa più pregiata. Da sempre, le alleanze costituiscono il modo attraverso il quale si acquisiscono esternamente quelle risorse che risultano deficitarie all’interno. Ma visto l’elevato costo politico e reputazionale di proclamarsi amico di un criminale che ha scatenato una guerra di aggressione per pura ambizione di dominio, dobbiamo dedurre che Xi attribuisca alle risorse militari un valore altrettanto elevato nella realizzazione delle ambizioni cinesi.
E’ un cambio di registro sostanziale per un paese che aveva fatto del concetto di “armonia” un perno della propria narrazione, sostenendo che la crescita in termini politici ed economici del gigante asiatico non dovesse preoccupare nessuno (a cominciare dai vicini) perché avveniva all’insegna, appunto, dell’armonia. Anzi il manifesto per l’egemonia cinese del nuovo millennio era tutto declinato in termini economici e, soprattutto, finanziari. Cioè si presentava come una leadership nella quale l’egemone avrebbe fornito innanzitutto la stabilità finanziaria senza rivendicare una supremazia militare.
La cosa è particolarmente significativa, perché quando Pechino assunse la decisione di voler uscire dall’egemonia statunitense e avanzò la sua candidatura a sostituire gli Stati Uniti nella posizione di leadership, lo fece proprio a partire dall’ambito finanziario. Era il 2008, il presidente cinese era Hu Jintao e la popolarità dell’egemonia americana era ai minimi storici, dopo che il disastro dei mutui subprime, i junk bond e il fallimento di Lehman Brothers avevano iniziato a produrre i loro effetti sul sistema finanziario globale. Da più parti veniva giustamente osservato che Washington non solo aveva inefficientemente sorvegliato il suo sistema finanziario domestico (varando norme che premiavano sistematici moral hazard), ma aveva anche scelto di scaricarne i costi sugli altri paesi del sistema finanziario internazionale (“Fault Lines”, Raghuram Rajan, 2011). Negli anni successivi Pechino faceva una serie di passi che sarebbero culminati nel varo della Asian Investment Infrastructure Bank (Aiib) nel 2014 e nel lancio della Belt and Road Initiative (Bri) nel 2013. Iniziative alle quali, in quel periodo, guardavano con favore anche molti paesi occidentali.
Nel frattempo, però, la Bri è diventata oggetto di una ben più sospettosa attenzione mentre Pechino non è assurta al ruolo di nuova capitale della finanza globale. Il deficit di strumenti finanziari per aspirare all’egemonia non è stato cioè colmato e la Cina si è invece orientata sempre di più verso gli alternativi strumenti militari.
Rispetto a ciò occorre fare due considerazioni, entrambe riconducibili al cambiamento di regime imposto al paese dalla decisione di Xi di accentrare su di sé tutti i poteri senza alcun vincolo temporale, segnando il ritorno a quella situazione pericolosa cui Deng Xiaoping aveva voluto porre rimedio con il limite dei due mandati. La prima. L’incapacità cinese di attrarre risorse finanziarie sufficienti per porre la propria candidatura al ruolo di egemone deriva dalla natura illiberale e dispotica del regime. E’ lì che affonda quella “opacità” del suo sistema finanziario (particolarmente evidente nelle gigantesche banche regionali) cui più volte anche la Wto ha chiesto alle autorità di Pechino di porre rimedio. Rendere trasparente (e quindi attrattivo) il sistema finanziario implicherebbe però rompere il rapporto di subordinazione del sistema finanziario rispetto al Partito comunista, privare il Partito della sua greppia, cosa impossibile senza lo sviluppo dello stato di diritto, e senza la separazione dei poteri che sola può fornire una garanzia ultimativa ai diritti di proprietà. Cioè presupporrebbe un cambiamento di regime nel senso opposto a quello attuato da Xi.
La via dell’acquisizione di un ruolo egemonico attraverso la leadership finanziaria globale è quindi strutturalmente impossibile per Pechino, a meno che non si ritenga che il Partito sia disposto a mettere in discussione il suo ruolo di sovrano assoluto e non contendibile della società cinese. A mano a mano che ciò è diventato chiaro, l’orientamento aggressivo e muscolare della politica cinese si è fatto sempre più evidente, caratterizzando l’intera presidenza di Xi Jinping. La scelta di quest’ultimo di ribadire con forza i punti fermi ideologici della dottrina leninista nella declinazione di Mao è stata coerente rispetto a questa constatazione. Ma lo switch dalla scalata finanziaria alla leadership globale a quella militare ha deciso anche dell’orientamento delle alleanze cinesi. E’ questa la ragione ultima dell’avvicinamento sempre più stretto e dell’amicizia inossidabile tra Pechino e Mosca. E’ una questione strategica. Una volta scelta la via del confronto militare, l’alleanza con la Russia di Putin rappresenta un asset dal valore decisamente superiore alla partnership con le ricche economie occidentali. Se le cose stanno così, prepariamoci a una relazione strutturalmente complicata con l’asse dei dispotismi e non illudiamoci che dalle ragioni dell’economia possa provenire un aiuto significativo a migliorarla.