il fronte orientale
In Libia anche Haftar ci ricatta coi migranti, ma ditelo a bassa voce
La crisi economica in Egitto è l’arma segreta del generale. I numeri delle partenze dalla Cirenaica, le accuse alla Wagner e il dialogo che potrebbe rendersi necessario
Dal valico di Emsaed, una volta sconfinati dall’Egitto, per i migranti appena arrivati in Libia il porto più vicino da cui tentare di imbarcarsi verso l’Italia è solo qualche chilometro più a nord, a Bardia. Da queste parti, durante il dominio fascista, sorgeva l’ultimo avamposto militare a difesa della colonia italiana, Forte Capuzzo, abbandonato dopo la battaglia di El Alamein nel 1942. Oggi invece è uno dei centri nevralgici del traffico di esseri umani fra Egitto e Libia. Attorno c’è il deserto che a sud, poco prima di diventare Sahara, lascia spazio a un’oasi che dà respiro a chi viaggia fra i due paesi, quella di Giarabub. Con la guerra civile, questo lembo di terra ricco di acqua e alberi di datteri è l’avamposto di smerci illegali. Tabacchi, droghe, alcol, ma soprattutto persone che sono guidate dai passatori – i facilitatori degli attraversamenti fra le due frontiere – fino al mare di Bardia, Tobruk, Bengasi o Ajdabiya. Da lì, i migranti sperano di imbarcarsi verso l’Europa. Chi tenta la traversata racconta che i trafficanti sono soprattutto sudanesi ed egiziani e che, dopo avere superato il confine, sono ceduti ad altri trafficanti libici che a loro volta li conducono fino alla costa, con l’aiuto delle milizie di Khalifa Haftar.
Nella miriade di gruppi armati che in Libia si contendono il controllo sui traffici illeciti, ce n’è uno che aspira a essere un corpo speciale e che fa parte della Marina militare della Cirenaica, gli “Uomini-rana”, un’unità anfibia che nel 2020 si distinse nella battaglia per liberare Sirte dallo Stato islamico. Oggi sui social network si presenta con una foto, fra le altre, che mostra qualche pick-up e gommoni armati di mitragliatrici con al loro fianco alcuni miliziani sorridenti che fanno il saluto militare, ma calzano ciabatte e calzini bianchi. A regolare i flussi dei migranti in Cirenaica non sono i mercenari della Wagner, come ha dichiarato la settimana scorsa il ministro della Difesa Guido Crosetto, bensì queste milizie inquadrate sotto l’esercito di Haftar.
Fino a qualche anno fa, quella dell’est era la regione più insospettabile per le partenze. Numeri scarsi che però, con il passare del tempo, hanno cominciato a diventare sempre più importanti. Lo scorso gennaio, Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale e occidentale, ha redatto una presentazione a beneficio del Mocadem, il nuovo organo di coordinamento europeo voluto da Emmanuel Macron e che da un paio d’anni rappresenta uno dei forum di comunicazione tra i paesi dell’Ue e alcuni di quelli da cui partono le rotte migratorie. Nella presentazione di Cochetel – un documento confidenziale, ma divulgato dall’ong britannica Statewatch all’inizio di marzo – i numeri citati erano allarmanti. Oltre a una stima di più di 70 mila arrivi dalla Libia entro la fine del 2023 e alcune valutazioni fortemente pessimiste – “neanche una futura pacificazione fra est e ovest porterà a un calo degli arrivi dei migranti” – c’erano poi i dati sulle partenze dalla Cirenaica. Da lì, lo scorso anno, sono partiti verso l’Italia 17.500 migranti, soprattutto egiziani, bengalesi e siriani. Di questi, 5.500 hanno salpato da Bengasi e 12 mila da Bardia e Tobruk. Un incremento che solo nel 2022 è stato quantificato dall’Unhcr in un più 25 per cento, favorito dall’uso di grandi pescherecci. Rispetto alla Tripolitania, la distanza da percorrere per arrivare sulle coste italiane partendo da qui è maggiore. La tecnica usata dalle milizie di Haftar, dicono i migranti superstiti ai funzionari delle Nazioni Unite, è sempre la stessa: si parte con piccole imbarcazioni con sopra fino a una trentina di persone e poi si procede alla fase più pericolosa, il trasbordo in alto mare su pescherecci più grandi, in grado di affrontare la traversata. Spesso il viaggio si interrompe già qui, secondo le testimonianze, perché capita che il gommone si capovolga riversando in acqua i migranti e non è raro che la corrente ne riporti a riva i corpi dopo qualche giorno, come testimoniato dai rapporti della Mezzaluna rossa libica.
Secondo il documento presentato ai membri del Mocadem, l’accondiscendenza degli uomini di Haftar nei confronti dei trafficanti ha interessato anche i transiti dall’aeroporto di Bengasi: “Due sono le cause possibili di questo sviluppo – ipotizza il funzionario dell’Unhcr – I significativi profitti per alcuni ufficiali del Laaf (le Forze armate di Haftar, ndr) e per i trafficanti e il tentativo di fare leva sul sostegno degli stati europei per l’addestramento e l’assistenza tecnica offerte dall’Ue alla Marina dell’ovest”. Recentemente, la tesi del ricatto di Haftar ai danni dell’Europa – e dell’Italia in particolare – è stata avvalorata in un’intervista rilasciata sabato scorso allo Spiegel da Jalel Harchaoui, esperto di Libia del Royal United Service Institute e da poco tornato da Benghazi. Oltre a smentire la tesi del ruolo dei mercenari di Mosca alla voce immigrazione – “nessun trafficante libico o egiziano ha bisogno dei russi per guidare un peschereccio fino all’Italia”, ha detto Harchaoui – il ricercatore ha anche spiegato come Haftar abbia tutto l’interesse ad aumentare gli arrivi dei migranti in Europa per ottenere una fetta degli aiuti già garantiti a Tripoli e per ricordare che in Libia l’interlocutore con cui trattare è lui. “A Roma lo hanno capito perfettamente – ha detto Harchaoui – L’Italia non è preoccupata per l’attuale numero di rifugiati, piuttosto teme la prospettiva dell’arrivo di molte più persone se Haftar lo consentirà”.
Certo, la Wagner sostiene militarmente Haftar, ma per l’Italia incolpare i mercenari russi dell’incremento delle partenze dei migranti verso l’Europa senza esporsi invece contro quelle milizie che effettivamente gestiscono i traffici di persone ha una ragione: prima o poi potrebbe essere necessario sedersi al tavolo e trattare con Haftar e i suoi uomini per fermare i flussi. L’Italia ha l’interesse a mantenere aperti i ponti con il generale, magari per siglare un domani un altro accordo sui migranti sul modello – contestatissimo – del memorandum italo-libico già concluso con Tripoli nel 2017. Per questo, accusare apertamente Haftar di tenere sotto ricatto il nostro paese favorendo le partenze dei migranti si sarebbe rivelato una strategia poco efficace. Che scendere a patti con il generale della Cirenaica sia un male necessario lo sa bene anche Washington, che lunedì ha inviato in Libia l’assistente segretaria di stato americana per il medio oriente, Barbara Leaf, proprio per incontrare Haftar – e pazienza se meno di un anno fa il generale sia stato giudicato colpevole per crimini di guerra da un tribunale federale della Virginia. Lunedì i due hanno parlato della necessità di rinnegare i mercenari russi e di raggiungere un accordo per indire nuove elezioni, anche se nessuno sembra credere davvero nella fattibilità di entrambi i propositi.
L’arma segreta di Haftar è che, se a ovest la Tunisia è sull’orlo della bancarotta, a est l’Egitto che confina con la Cirenaica non se la passa troppo bene. Il Fondo monetario internazionale ha garantito al Cairo un prestito da 3 miliardi di dollari ma a una condizione: che il presidente Abdel Fattah al Sisi faciliti l’apertura a una economia di mercato togliendo il potere economico dalle mani dell’esercito. Finora non è successo e oltre al Fmi, anche le monarchie del Golfo stanno facendo pressioni sul Cairo. Se la scommessa di Haftar è che la crisi economica in Egitto gli garantirà un flusso di migranti sempre maggiore, utile a incrementare il business delle sue milizie e pronto a essere deviato verso l’Europa e minacciarla, quella di Sisi è che l’Egitto è “too big to fail” e che i prestiti di denaro dall’estero non si fermeranno. Uno stallo alla messicana, dove l’Italia rischia di restare dalla parte sbagliata.