Il dilemma TikTok

Giulia Pompili

Oggi il ceo Shou Zi Chew testimonia al Congresso americano. Tra sicurezza e dati, quanta Cina c’è dietro al social più popolare del mondo

Oggi Shou Zi Chew, l’imprenditore singaporeano ceo di TikTok da poco più di un anno, comparirà davanti al Congresso americano. Nella sua testimonianza dovrà dare alcuni dettagli sulla privacy e la sicurezza della popolare applicazione di proprietà della società cinese Bytedance. E dovrà essere convincente: pochi temi hanno unito la politica americana, negli ultimi mesi, come quello che riguarda TikTok e i possibili rischi per la sicurezza nazionale. E il dibattito è così avanti che secondo i media americani non si è mai stati così tanto vicini dall’approvazione di un divieto totale dell’applicazione sul territorio americano. Già all’inizio di marzo è stata presentata una proposta di legge per autorizzare il segretario al Commercio americano a vietare tecnologie straniere di operare su territorio americano se queste rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale.

 


E negli stessi giorni era stato approvato alla Commissione esteri il Deterring America’s Technological Adversaries Act, o Data Act, che permetterebbe alla Casa Bianca di mettere sotto sanzioni o vietare del tutto quelle applicazioni che condividono i dati degli utenti con individui o società legate a regimi autoritari, tra cui il governo cinese.

 

Tutto ruota attorno alle due leggi sull’intelligence nazionale e sul controspionaggio introdotte da Pechino nel 2017, che obbligano ogni azienda o cittadino “a sostenere, assistere e cooperare al lavoro di intelligence”, quindi anche a consegnare i dati in suo possesso. In sostanza, nella Repubblica popolare cinese non potrebbe mai avvenire quello che è accaduto tra l’Fbi e Apple nel 2016, quando l’azienda rifiutò di sbloccare l’iPhone di uno degli attentatori di San Bernardino. 

 


A dicembre scorso la situazione di TikTok in America è peggiorata quando alcuni dipendenti della cinese Bytedance sono stati trovati a monitorare alcuni giornalisti che stavano raccogliendo informazioni sull’azienda cinese. All’epoca fu la stessa TikTok ad ammettere la cattiva condotta dei dipendenti, e a licenziarli. In America lo spionaggio cinese è diventato un tema caldo, condiviso da repubblicani e democratici. Mentre i primi spingono per una soluzione drastica – il divieto completo di TikTok – per i dem la soluzione potrebbe essere quella di una vendita della società, almeno nel segmento americano. E’ già successo quattro anni fa con l’app di dating gay Grindr, quando il Comitato sugli investimenti esteri americano, che considerava una minaccia la proprietà di Grindr da parte della società cinese Beijing Kunlun Tech, costrinse la vendita al gruppo d’investimento californiano San Vicente Acquisition. 


Il dilemma TikTok potrebbe essere applicato potenzialmente a tutte le applicazioni di proprietà cinese. Il problema specifico però riguarda la potenza di quel social network – oltre un miliardo di utenti attivi a livello globale – e l’applicazione delle più recenti leggi cinesi, oltre che l’aumentare delle tensioni tra Cina e occidente. E’ questo che fa sospettare i governi, un po’ ovunque nel mondo, della possibilità di un uso piuttosto leggero delle norme sulla sicurezza degli utenti, e quindi della sicurezza pubblica. Come misura cautelativa, oggi TikTok è stato vietato sui dispositivi dei dipendenti pubblici in America, nelle istituzioni dell’Unione europea, in Canada. Vietato anche a chi lavora nella Difesa della Danimarca, compresi i dipendenti Nato, e l’altro ieri si sono adeguati anche i governi di Norvegia e Olanda. 

 

L’Italia è uno dei pochi paesi a non aver affrontato ancora la questione della sicurezza dell’app cinese e del trattamento dei dati acquisiti. L’altro ieri, però, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha fatto sapere di aver condotto “un’ispezione” nella sede italiana di TikTok. L’istruttoria è stata avviata non per i rischi sulla sicurezza dei dati degli utenti – di quelli eventualmente se ne occupano le autorità giudiziarie, oltre che la politica  – ma per via di un omesso controllo sui contenuti pubblicati da terzi sul social e “a seguito della presenza sulla piattaforma di numerosi video di ragazzi che adottano comportamenti autolesionistici”. L’unico esponente di governo ad aver parlato finora di TikTok è il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, che dal suo profilo TikTok ha paragonato un eventuale ban alla “censura”.  

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.