Putin e Xi Jinping, amici non proprio a tutto gas
I progetti come Power of Siberia 2 arriveranno tardi e non compenseranno la chiusura dei gasdotti europei. La Russia perde quote di mercato e ha un disperato bisogno di vendere gas, molto superiore a quello che ha la Cina di comprarlo
Sarà che l’amicizia tra la Russia e la Cina è “senza limiti”, ma in certi rapporti i limiti spesso appaiono dalle parole che non si dicono. Ad esempio sul gas. Prima dell’incontro con Xi Jinping, Vladimir Putin in un articolo sul Quotidiano del Popolo, organo del Partito comunista cinese, aveva definito la realizzazione del gasdotto russo-cinese Power of Siberia 2 come “l’affare del secolo”. Dopo l’incontro con il presidente cinese, Putin ha detto che ormai tutti gli accordi con la Cina e la Mongolia, sul cui territorio dovrà passare il gasdotto, sono ormai completati. Ma nel comunicato congiunto dei due leader si fa semplicemente riferimento agli sforzi “per portare avanti i lavori di studio e approvazione del progetto”, mentre la dichiarazione finale di Xi Jinping non cita il gasdotto. L’assenza mostra in maniera evidente che Mosca ha un disperato bisogno di vendere gas, molto superiore a quello che ha la Cina di comprarlo.
Dopo l’invasione dell’Ucraina e il tentativo fallito di usare il gas come un’arma per piegare l’Europa, Putin ha perso il suo più grande cliente. Nel 2022 l’export totale di gas della Russia è crollato del 25% a 185 miliardi di metri cubi (bcm), un dato destinato a diminuire vista la prospettiva dell’azzeramento del flusso verso l’Europa nei prossimi anni. L’alternativa ovvia è la Cina, verso cui la Russia si è voltata già dopo l’invasione della Crimea del 2014 e le conseguenti sanzioni, con le prime consegne nel 2019 attraverso il gasdotto Power of Siberia. Il problema è che Putin impiegherà anni per sostituire solo una parte del mercato europeo, e con condizioni economiche più sfavorevoli.
Nel 2022 le esportazioni in Cina attraverso il Power of Siberia esistente sono salite da circa 10 bcm a 15 bcm (un decimo dei 155 bcm esportati in Europa nel 2021) e, secondo i piani di sviluppo saliranno a 22 bcm nel 2023, fino a raggiungere la capacità massima di 38 bcm nel 2027. Poco prima dell’invasione, a febbraio 2022, Russia e Cina avevano stretto un accordo per forniture non ancora partite da 10 bcm entro il 2026 attraverso il gasdotto Sakhalin–Vladivostok in estremo oriente. Con il Power of Siberia 2, da completare non prima del 2030, Putin conta di aggiungere una capacità di altri 50 bcm, per un totale di 98 bcm. Ma, a parte i tempi lunghi circa dieci anni, si tratta quasi della metà dei volumi esportati in Europa che nel 2018-19 hanno toccato i 177 bcm. Per avere un termine di paragone, il Power of Siberia 2 – che Putin ha pomposamente definito “l’affare del secolo” – e che non trasporterà una molecola di gas prima del 2030, ha una capacità inferiore a uno solo dei due Nord Stream (55 bcm).
Ma la criticità ulteriore per la Russia è che non è affatto detto che la Cina abbia bisogno di tutto questo gas. Il 14esimo Piano quinquennale approvato da Xi Jinping prevede il rafforzamento della sicurezza energetica potenziando la produzione domestica di gas: Pechino non ha alcuna intenzione di rendersi dipendente da Mosca, soprattutto dopo aver visto la crisi energetica in cui si è trovata l’Ue. Così, senza collegamenti con mercati alternativi che avranno bisogno di soldi e anni per essere costruiti, gran parte del gas russo resterà invenduto.
Secondo le stime dell’Agenzia internazionale dell’Energia (Iea), la quota della Russia nel commercio globale di gas scenderà dal 30% nel 2021 al 10-15 % nel 2030, con le entrate nette che crolleranno da 75 miliardi di dollari nel 2021 a meno di 30 miliardi nel 2030. Quella del gas è una disfatta strategica di Putin, che l’“amico” Xi non può né ha interesse a rimediare.
L'editoriale dell'elefantino